mercoledì 5 agosto 2009
COMMENTA E CONDIVIDI
L’ obiezione di coscienza dei medici che non praticano l’aborto è una «truffa scandalosa» dettata semplicemente da ragioni «di comodo e di carriera». Fino a qui, il breve 'appunto' firmato da Filippo Facci sulla prima pagina del Giornale di ieri sembra semplicemente un pezzo agostano, una schioppettata a vuoto nella calura estiva. (Solo per rispetto della verità si potrebbe replicare che, accanto a chi obietta per una qualche 'convenienza', tanti lo fanno per un imperativo interiore. E molti altri, in passato abortisti, hanno 'lasciato' per quel logorio annichilente che è praticare dieci o venti aborti alla settimana). Ma è invece l’ultima frase dell’'appunto' che colpisce.Dove ci si chiede perché mai un pro-life debba per forza fare il ginecologo: «Che è come un obiettore pacifista che scelga ostinatamente la carriera militare». Ecco, è questa frase, pure nella sua provocatorietà, che merita di essere analizzata. Perché un pro­life, cioè uno a favore della vita, dovrebbe dedicarsi a madri e nascituri? Se lo chiedeste a un ragazzino di dieci anni, quello nella sua sua ingenuità sarebbe capace di dirvi che è una scelta del tutto naturale. Ma la logica, qui, è del tutto opposta. Accomuna l’ostetrico a un 'generale', cioè a un guerriero. A un militare, posto a difesa di una trincea, o di un confine. Di là dal confine ci sono i nascituri. Il mestiere del generale in questione è quello di respingerli indietro – là da dove vengono. E d’accordo, il gusto della provocazione, il giornalistico bisogno di far rumore a ogni costo. Ma qui si intravede una deriva profonda rispetto a quello che è un comune sentire. Gli ostetrici – provate a chiedere alla gente in un mercato, o per strada – servono per fare venire al mondo i bambini. Perché i nostri figli nascano. Accade, certo, che si sentano chiedere un aborto. Alcuni, molti, lo fanno. Però l’aborto non può essere la ragion d’essere della professione di un medico: di uno che ha giurato di curare e far vivere. Ma allora dove sta l’interesse, e diremmo quasi la oscura verità, del paradosso? Sta nell’humus di una cultura borghese, lib-lab, non necessariamente di sinistra ma invece ampiamente trasversale; individualista fino al midollo, spasmodicamente tesa a difendere i 'propri', e solo quelli, diritti. Una cultura in cui l’aborto è appunto uno di questi diritti, da garantire anche passando sopra alla coscienza degli obiettori. Che sono poi tutti, o quasi, carrieristi e furbi. (Come in una proiezione della visione del mondo propria, sul prossimo; giacché appare incredibile all’individualista moderno che qualcuno ragioni non solo per tornaconto o per se stesso, ma secondo altre ragioni). Una cultura per cui esiste solo il proprio presente, e che di chi verrà dopo non si cura; e non fa quasi più figli, e non comprende perché dovrebbe farne. Una mentalità in cui l’ostetrico non è più quello che fa nascere, ma il generale che difende il confine dall’invasione di nuovi indesiderati ospiti. Giacché venire al mondo si può, solo a rigorose convinzioni: sani, perfetti, soprattutto desiderati. Così come solo alle stesse condizioni, al mondo si può tollerare di restare. Perciò l’altra battaglia dei magnificatori dell’aborto in un bicchiere d’acqua, è l’eutanasia: il 'diritto' di andarsene. Che si fantastichi la non-obiezione garantita per i ginecologi è fantascienza, ma è anche un segno. Non vogliamo, in questa nostra enclave d’Occidente a crescita zero, mani abili e accoglienti a accogliere i neonati, ma 'generali'. Disciplinati. Inflessibili: hai tu titolo per venire al mondo? Una mentalità in realtà educatamente suicidaria, nascosta nella gaia leggerezza degli intellettuali borghesi.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: