venerdì 31 maggio 2013
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C’era una volta una Turchia rigida­mente ancorata ai pilastri fissati da Mustafa Kemal Atatürk negli anni Venti dello scorso secolo: un Paese rigidamen­te laico e secolarizzato, perfino tetragono nell’impedire certe manifestazioni della religiosità, come il divieto del velo nelle università e nei luoghi pubblici. Un Pae­se solidamente agganciato all’Occidente tramite la Nato, di cui era membro fede­le. Il kemalismo aveva quasi finito con il fare dei movimenti di ispirazione islami­ca solo una sorta di “controcultura reli­giosa”, legata al mondo tradizionale e ru­rale o di opposizione alla classe politica e militare dominante. È una Turchia che sembra non esistere più, scoloritasi lentamente negli anni del governo del premier islamista Recep Tayyip Erdogan, al potere ormai da più di un decennio con il suo Partito per la giu­stizia e lo sviluppo (Akp). Se l’islam era stato a lungo l’identità nascosta dello Sta­to laicizzato, oggi la sua presenza è sem­pre più percepibile e manifesta a ogni li­vello sociale e politico: dalla presidenza della Repubblica a quella del governo, al­la “normalizzazione” delle Forze armate turche – tradizionalmente il bastione a protezione del kemalismo – alle nume­rose leggi e disposizioni di ispirazione i­slamica. Ormai reintrodotto il velo negli spazi pubblici, si assiste in questi mesi a una campagna governativa “a favore di un comportamento morale” molto ambigua. Sono – ad esempio – scoraggiate le cop­pie dal baciarsi o tenersi per mano, men­tre sono stati molto criticati i tentativi di indurre le hostess della Turkish Airlines a ridurre il trucco e ad adottare divise rite­nute più consone a un Paese musulma­no (ma da molti considerate solo goffe e scomode). Pochi giorni fa infine il Parla­mento ha introdotto severe limitazioni alle vendita degli alcolici, mentre la stret­ta governativa è arrivata anche sui pro­grammi televisivi. Insomma, molti turchi temono che Erdo­gan stia pianificando una completa tra­sformazione del Paese, allineandolo pro­gressivamente alle altre nazioni musul­mane del Medio Oriente. Un’accusa che il primo ministro ha sempre rifiutato: e­gli si definisce a capo di un partito «con­servatore democratico», che ha prospe­rato grazie alla democrazia e che è quin­di a essa solidamente ancorato. Tuttavia, si moltiplicano le preoccupa­zioni di chi ritiene che il sistema demo­cratico per l’Akp sia solo il mezzo, e non lo scopo, e che l’obiettivo ultimo sia quel­lo di una piena islamizzazione della Tur­chia, pur condotta con passo felpato, sen­za strappi e per lenta osmosi. È un inter­rogativo cruciale, dato che il governo Er­dogan è stato spesso considerato – negli anni recenti – come la prova che l’islam politico moderato possa inserirsi senza problemi in un contesto democratico. Purtroppo, pochi aggettivi riescono a es­sere scivolosi e imprecisi come “mode­rato”: un termine che contiene in sé un valore positivo intrinseco, un pre-giudi­zio rassicurante. Ma che dipende più dal­le percezioni e dalle inclinazioni di chi lo attribuisce che dalle azioni reali di chi così viene etichettato. Un termine mol­to più realistico per definire l’islamismo politico turco, probabilmente, è “pru­dente”. Suonerà per qualcuno ingenero­so, ma guardando alle mosse di Erdogan non si può non notare la cautela dei suoi primi anni, attento com’è stato a evitare gli azzardi del suo predecessore, Nec­mettin Erbakan, costretto alle dimissio­ni dai militari. Ora che le resistenze laiche sembrano es­sere spezzate, i passi verso una islamiz­zazione degli spazi pubblici e socio-cul­turali sembrano farsi più spediti. Passo dopo passo, decisione dopo decisione, provocazione dopo provocazione, il pon­te storico fra Oriente e Occidente che è la Turchia sembra ora pencolare un po’ di più verso Est. Ma, per chi vuole conti­nuare a vedere le cose con un pregiudi­zio positivo, si è inclinato solo “modera­tamente”.​
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