sabato 1 ottobre 2016
COMMENTA E CONDIVIDI

«Delle ragazze di prima che frequentavano il mio liceo se la prendevano con un ragazzo disabile sull’autobus, facendogli fare cose stupide a cui tutti ridevano, oppure gli mettevano fuori dal finestrino il suo pupazzo preferito facendogli credere che l’avrebbero buttato di sotto, e lui piangeva…».

Se sul web cercate alla voce 'storie di bullismo', questa è la più 'innocente' che potete trovare: un ragazzino disabile che piange perché i compagni lo deridono e lo fanno soffrire, minacciando anche il suo peluche. Poi c’è ben di peggio, umiliazioni, vessazioni, addirittura riprese da chi le compie: come in quel video di un paio di anni fa in cui un ragazzo handicappato veniva schernito e deriso davanti a tutta la classe. Secondo un’indagine dell’Istat, nel 2014 un adolescente su due in Italia era stato oggetto almeno una volta di una prepotenza da parte dei compagni. Bullismo: non episodi isolati, ma come una strana crudeltà che si diffonde fra i più giovani.

Si è sentito in dovere di parlarne il presidente Mattarella ieri, davanti agli studenti di Sondrio. «Questo odioso fenomeno di accanimento contro chi non si omologa, o semplicemente viene visto e perseguitato come debole o come 'diverso'», ha detto. E proprio in questi giorni è apparsa sulle pagine dei giornali e nel web la storia di Emilie, la diciassettenne francese che si è tolta la vita al termine di una lunga serie di persecuzioni in classe. Lei è morta, ma i suoi genitori hanno reso pubblico il suo diario, che ha dell’incredibile: incredibile come nessuno dei professori abbia visto, come, a casa, nessuno si sia accorto di niente.

Come si possa morire a 17 anni, perché i compagni ti tormentano in quanto non vesti, non parli, non sei come loro. L’emergere dalle cronache di tragedie come questa, e nemmeno per la prima volta, porta la generazione degli adulti a farsi delle domande. Ma noi, da ragazzi, eravamo altrettanto crudeli? ci chiediamo disorientati. E, andando indietro con la memoria, ricordiamo che anche allora c’erano i branchi, le divisioni invalicabili, gli abiti che marcavano l’appartenenza a questo o quel giro; che c’era la cattiveria e la emarginazione, spesso, dei più timidi; e però non ricordiamo che si arrivasse a maltrattare un handicappato, a persecuzioni metodiche e organizzate come quelle di cui leggiamo oggi.

Sembra quasi che alle nuove generazioni manchi il senso di un limite, di una linea invalicabile fra lo scherzo di cattivo gusto e la autentica persecuzione. E, insieme, che sia diffusa in tanti una sorta di percezione di impunità, tale che non esitano a filmare le stesse scene che poi palesemente li accusano.

Certo, l’avvento dei cellulari ha rivoluzionato anche l’adolescenza, e uno smartphone e un pc in mano a dei ragazzini possono diventare un gioco distruttivo. Ma, al di là delle drammatiche derive del cyberbullismo, resta un interrogativo di fondo: questa crudeltà diffusa, da dove viene, e perché? 

 Quando a compiere certe violenze sono ragazzi di quindici o sedici anni, e anche meno, sembra chiaro che padri e madri devono farsi delle domande. Si è stati forse troppo accondiscendenti con questa generazione di figli, spesso unici, cui si è dato materialmente anche troppo? Un figlio somiglia a un fiume: ha bisogno di una direzione, e di due argini. Ora, leggendo certe storie, sembra che la direzione data sia spesso confusa, e gli argini manchino. Gli argini, i limiti invalicabili, erano nelle vecchie famiglie un compito paterno; e forse questo nostro tempo che ha combattuto e travolto insieme il padre e ogni principio di autorità, ci lascia ora vedere ciò che resta, quando si manda in frantumi un’asse portante della educazione.

O addirittura il disordine che vediamo è il frutto di un anello interrotto nella trasmissione generazionale: nel dominio del relativismo assoluto si allarga un’aura di incertezza su ciò che è bene, e ciò che è indiscutibilmente male. Ha detto il presidente Mattarella ieri che contro la deriva del bullismo «è necessario un grande patto tra scuola, famiglia, forze dell’ordine, magistratura, mondo dei media e dello spettacolo. Un’azione congiunta, capace non soltanto di reprimere ma, soprattutto, di prevenire, con una vera e propria campagna educativa che arrivi al cuore e alla mente dei giovani». 

Ben venga questa azione congiunta, e, speriamo, condivisa e incisiva. Anche se chi di noi ha figli sa quanto poco in fondo si educhi con le parole, anche con le migliori; e quanto, invece, con il proprio essere, con quello che i figli vedono in noi. Così che un ragazzo che tormenta un compagno più debole o 'diverso' – per pelle o per indole o per qualsiasi altro motivo – dovrebbe, prima di tutto, porre una ineludibile domanda ai suoi genitori: dove e come ha imparato quel disprezzo, e quell’amaro gusto di prevaricare. E chiamare alla risposta utile e ricostruttiva.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: