martedì 31 dicembre 2013
Il futuro a rischio del continente. Due vie allo sviluppo. E la forte minaccia islamista​​. Giulio Albanese​
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Il settimanale britannico Economist ritiene che l’Africa non sia più hopeless (senza speranza), ma hopeful (piena di speranza). È vero o si tratta di un abbaglio giornalistico? Lo scenario è complesso e va interpretato realisticamente. Anzitutto, vi è una crescente e persistente penetrazione cinese in Africa. Pechino ha investito in grandi progetti infrastrutturali, costruito porti, scuole ed ospedali, lanciato iniziative di formazione e borse di studio, soprattutto non ha interferito nelle vicende politiche locali, ignorando totalmente l’agenda dei diritti umani.
 
Dal 2010, il gigante asiatico è divenuto il primo partner commerciale del continente africano, davanti agli Stati Uniti. Nel frattempo, però, l’elezione della signora Nkosazana Dlamini-Zuma alla carica di presidente della Commissione dell’Unione africana (Ua), nel luglio del 2012, ha sancito l’affermazione di un nuovo cartello, quello dei Brics che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Se la nomina, nel 2008, di Jean Ping a capo della Commissione Ua (predecessore di Dlamini-Zuma, nonché figlio di padre cinese e madre gabonese) aveva decretato, metaforicamente, l’alleanza tra Pechino e l’Africa, la scelta di una donna sudafricana, ex moglie del presidente Jacob Zuma, alla guida della Commissione Ua, ha aperto nuovi orizzonti. Senza rinnegare l’amicizia con Pechino, i capi di Stato e di governo africani hanno identificato nei Brics (che pure comprendono la Cina) un alleato.
 
Non è un caso se, nel marzo scorso, si è svolto a Durban, in Sudafrica, il summit di questi grandi cinque Paesi emergenti in cui si è parlato di investimenti in Africa, gettando le premesse per la realizzazione di una Banca di Sviluppo per il finanziamento di infrastrutture. L’obiettivo è certamente quello di creare un blocco alternativo di potere agli Usa e all’Europa. Mosca, ad esempio, ha cancellato 20 miliardi di dollari di debito dei Paesi africani alla Russia in cambio di concessioni minerarie, mentre Pechino non ha pudore nell’intrattenere proficue relazioni anche con i peggiori dittatori come il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe. D’altra parte, i Brics sono sempre più convinti che Africom, il comando militare Usa in Africa, concepito in funzione antiterroristica, serva a proteggere e schermare gli interessi americani.
 
Ecco che allora il progetto politico dei Brics si sta sempre più delineando in forma sì alternativa, ma anche egemonica su scala planetaria, con un occhio di riguardo nei confronti dell’Africa per le sue risorse energetiche, industriali e in generale, geostrategiche. Com’è noto, i Brics mirano anche alla creazione di un paniere di valute globali, alternative al dollaro ed all’euro, con l’intento di scalzare la supremazia monetaria occidentale anche in Africa. Nel frattempo, la vecchia Europa appare sempre più pervasa da atteggiamenti contrastanti: in sede di Unione europea si enuncia il principio della multilateralità nelle relazioni con l’Africa, mentre i singoli governi (soprattutto Francia e Regno Unito) si muovono all’insegna del bilateralismo, come se i rapporti con i singoli Stati africani prescindessero dagli impegni della Commissione di Bruxelles. Dal punto di vista commerciale, la Ue insiste nell’imporre i cosiddetti Economic Partnership Agreements (Epa) ai Paesi Acp (Africa, Caraibi e Pacifico), eliminando così tutte le barriere all’insegna del libero scambio, con l’idea che in questo modo sarà possibile incentivare la crescita economica dei Paesi in via di sviluppo.
 
I Paesi africani in particolare hanno contestato duramente questo indirizzo, ritenendolo lesivo dei propri interessi, anche se alcuni hanno dovuto cedere e altri dovranno farlo entro il 1° ottobre 2014. Infatti, il ribasso progressivo delle tariffe doganali all’importazione dei prodotti europei potrebbe causare gravi danni alle singole economie africane. Ma se qualcuno pensasse che sia sufficiente disfarsi delle ingerenze dell’Occidente per risolvere i problemi dell’Africa, si sbaglierebbe di certo. Il Continente, infatti, deve ancora fare molta strada, non solo per quanto concerne l’apertura al multipartitismo e l’alternanza al potere (la crisi sudsudanese, esplosa in queste settimane, è emblematica). La vera sfida rimane quella della lotta contro l’esclusione sociale, legittimata dalle vecchie e nuove oligarchie (molte delle quali massoniche) che continuano ad intascare la liquidità generata da un Pil continentale attestato attorno al +6% annuo.
 
Una performance, quella della crescita economia africana, che va comunque presa con beneficio d’inventario. A volte, è semplicemente l’emersione di una parte dell’economia informale a tradursi in un consistente aumento del Pil (oggi, grazie a nuove tecniche di rilevamento, si può quantificare ciò che prima esisteva, ma non era registrato). Inoltre, la semplice misurazione della crescita del Pil nulla dice rispetto a quella che è la sua distribuzione. A questo punto, viene spontaneo domandarsi quali possibilità di manovra avranno nei prossimi anni i singoli Paesi africani. Il rischio è quello di un acuirsi della conflittualità, anche perché nel continente si sta affermando un terzo incomodo: il salafismo di matrice saudita che minaccia la fascia subsahariana. Se nel Novecento la linea di demarcazione tra Oriente e Occidente attraversava il Medio Oriente, oggi la faglia sta spostandosi gradualmente sul territorio africano, interessando non solo la Somalia, ma anche territori molto più ad Ovest, come la Repubblica Centrafricana, la regione maliana dell’Azawad, per non parlare degli Stati settentrionali della Repubblica federale nigeriana.
 
Le ricchezze del sottosuolo africano, unitamente alla fragilità delle istituzioni politiche locali, rende il continente esposto ad ogni genere d’interferenza. La minaccia di una islamizzazione da Nord verso Sud sembra comunque non preoccupare più di tanto i Brics. Il fatto che la Cina mantenga proficue relazioni con regimi estremisti come quello di Khartum e di N’Djamena la dice lunga. Ma anche le diplomazie occidentali, a parte legittimare le missioni francesi in Mali e Centrafrica, sembrano sottovalutare le spinte jihadiste. Esse non solo sono spietate, ma rispondono al progetto di colonizzazione dell’Africa tanto caro a certe confraternite musulmane e, soprattutto, alla nuova generazione di imprenditori arabi che considerano strategiche le riserve petrolifere dell’Africa Subsahariana. Una cosa è certa: l’Africa oggi viene considerata dagli analisti una sorta di 'Big Deal'. Forse sarebbe più corretto dire che rappresenta una grande opportunità per chi fa affari e un po’ meno per gli africani, che rischiano d’essere vittime sacrificali di una globalizzazione senza diritti.
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