giovedì 11 luglio 2013
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​«La luce in fondo al tunnel è stata spenta per motivi di bilancio. Ci scusiamo per l’inconveniente». Recitava così il cartello davanti a una galleria buia di una divertente vignetta inglese di qualche tempo fa. Eppure, nonostante le due notizie negative degli ultimi giorni (il declassamento deciso da Standard & Poor e il ritocco verso il basso delle stime sul Pil per Europa e Italia) e nonostante i tagli di bilancio, una piccola luce in fondo al tunnel dopo anni di calvario sembra intravedersi ed è la ripresa prevista per fine anno (secondo i più ottimisti) o, comunque, per il 2014. Certo il sentiero resta stretto ma dobbiamo fare di tutto per mantenere compattezza e sangue freddo e trovare la via d’uscita. Del piano internazionale abbiamo detto più volte. Se dovessimo mettere l’Unione Europea, gli Stati Uniti e il Giappone su di un ideale asse con rigore ed espansione ai due estremi opposti avremmo Ue e Giappone sui due punti limite e gli Stati Uniti nel mezzo. La posizione ideale probabilmente è tra Ue e Stati Uniti, ma molto molto vicina ai secondi con una banca centrale e una politica fiscale che perseguono attivamente l’obiettivo di sostenere occupazione e domanda interna. Qui da noi, invece, Keynes si rivolta da tempo nella tomba dopo aver sentito le eresie del rigorismo di per sé espansivo, ormai abbandonato precipitosamente dai suoi stessi sostenitori che ormai auspicano l’opposto: e cioè che l’Italia chieda uno sforamento al patto di stabilità. Il rischio di morire sì, ma con l’orgoglio di aver rispettato pareggio di bilancio e Fiscal Compact non vorremmo correrlo. Nel famoso film Rain Man il protagonista Dustin Hoffman affetto da autismo vive nel terrore di rompere linee immaginarie nella propria stanza, e quelle del 3% e del pareggio (valide per alcuni Paesi e non per altri) ci assomigliano molto. Il dato di fatto di qualunque evidenza empirica micro o macro che probabilmente mette d’accordo tutti gli addetti ai lavori è che imprese, settori, l’intero Paese sono costretti a fare media tra la crescita delle vendite estere e il crollo di quelle interne per gli effetti nefasti del rigore. Il saldo aggregato è purtroppo negativo perché non si vive di solo export. La cronaca quotidiana come quella degli ultimi giorni ci presenta da un po’ di tempo gli esiti talvolta comici delle reazioni istantanee e talvolta isteriche dei mercati e quelle necessariamente ritardate delle istituzioni. Come nel caso di Standard & Poor che ha dovuto (e voluto) raccogliere, riflettere, elaborare, decidere ed emettere un verdetto di affidabilità sul debito su dati che, mentre tutto questo percorso si svolgeva, sono cambiati in meglio per l’Italia. Il rating è all’Italia di oggi o a quella di mesi fa? Il mercato sembra aver capito, non dando granché retta al responso. L’altro ritardo preoccupante è la capacità di aggiustamento delle istituzioni comunitarie alla situazione. L’abbandono del dogma rigorista è molto lento anche se la direzione è finalmente quella giusta (fondi della Bei e programma per l’occupazione giovanile). Mentre Mario Draghi appare molto più lesto a capire la situazione, a ragionare con i mercati e ad orientarli, la politica fiscale dell’Ue – ancora nel cono d’ombra del masochismo rigorista – arriva sempre con un attimo di ritardo aggravando la recessione dell’Eurozona. Ci aspettiamo che il governo sappia battersi su due fronti: continuare a spingere per spostare l’ortodossia europea verso un’azione più espansiva e lavorare, all’interno, per trovare tutte le risorse possibili per far ripartire il Paese e migliorarne la qualità. Le direzioni sono quelle note dell’efficienza della giustizia civile, dei pagamenti della pubblica amministrazione, della lotta all’evasione (pagare meno ma pagare tutti), dell’innovazione e della diffusione della banda larga. Quanto alle enormi risorse di spesa pubblica inefficiente subito liberabili per far ripartire lo sviluppo, stiamo ancora aspettando; anche se speriamo arrivino dall’applicazione dei costi standard in sanità e da una gestione efficiente del patrimonio pubblico. Se vogliamo fare un bagno di ottimismo leggiamo il bel rapporto Symbola-Unioncamere-Edison sulla nuova geografia del made in Italy e sul Pil "di qualità". Ci sono tutte le nostre realtà di frontiera, le posizioni di leadership mondiale su mille segmenti di prodotto, l’eccellenza e le potenzialità di meccanica, agroalimentare, turismo, arte e cultura, sussidiarietà e terzo settore. È una fotografia dei talenti che sorreggono il Paese e che creano valore e posti di lavoro senza cercare di mettere una pezza ai propri limiti di qualità con la riduzione dei salari. Vorremmo che questa parte (l’Italia di qualità) fosse il tutto ma purtroppo non è ancora così. Politiche macro di sostegno alla domanda e sistema Paese che aiuti la crescita e lo sviluppo di eccellenze: è ciò di cui abbiamo bisogno per evitare di stare, nell’autunno del nostro rigore, «come sugli alberi le foglie».
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