La vita di Moira, l'attesa di chi la ama si fa appello: dare morte non è libertà
mercoledì 15 febbraio 2017

Caro direttore,

mi è capitato l’altro giorno di entrare in casa di Giovanna e Faustino Quaresmini al mattino, proprio nel momento in cui i due genitori (68 anni lei e 75 lui) stavano accudendo la figlia Moira da 17 anni in stato vegetativo. Ebbene in quel momento il papà stava facendo il segno della croce sulla fronte della figlia, recitando questa preghiera sgorgata dal suo cuore e che mi ha spezzato il cuore: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen. O buon Gesù, questa bimba proteggila tu. Proteggi anche sua mamma e suo papà, suo fratello Luigi e il suo nipotino Luca e tutti quelli che le vogliono bene. Proteggi il Papa e i sacerdoti, don Mario e Radio Mater e tutti gli ammalati del mondo che soffrono. E anche tu, Madonnina, questa bimba proteggila tu e dai a sua mamma e a suo papà la forza di volerle sempre tanto bene e ancora di più. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen”. La commozione era tanta, soprattutto quando ho saputo che il papà la ripete tre volte al giorno: al mattino, nel primo pomeriggio quando Moira viene coricata per il pisolino, e alla sera. Tre volte al giorno da 17 anni, da quando nella notte del 13 gennaio 2000, un embolo amniotico ha causato la morte della figlia che stava per partorire, e il coma. Secondo i medici sarebbe sopravvissuta non più di qualche mese. E invece… Ora ha 47 anni e viene nutrita con il cucchiaino: mangia, seppure tutto tritato, esattamente quello che il resto della famiglia mangia a tavola. Per darle da bere, invece, utilizzano il sondino naso-gastrico. Moira, ha scritto qualcuno, è la prova (se ce ne fosse bisogno ancora) che Dio esiste. Di fronte alle discussioni che si fanno in Parlamento sul “fine vita”, questi genitori si sentono impotenti e non sanno come arrivare al cuore dei politici per chiedere loro di essere aiutati, non per sopprimere la vita della figlia, ma per poterla assistere adeguatamente 24 ore al giorno. Non vogliono altro: poter accudire il loro famigliare, nella consapevolezza che l’eutanasia di persone gravemente disabili per sottrazione di cibo e acqua non sarà mai una conquista di libertà.

Enrico Viganò

Ho imparato, e cerco di trasmettere da tempo a chi legge ciò che scrivo, che non c’è nulla di più rischioso e persino di più crudele dei dibattiti “in astratto” sulla vita e sulla morte degli altri, e sulla “dignità” dei momenti cardine nell’esistenza di chiunque. Per questo, caro Enrico, ti sono specialmente grato di questa lettera nella quale, con grande lucidità oltre che con delicatezza e commozione, presti voce alla quotidianità, alle preoccupazioni e alle attese di una delle migliaia di famiglie che in Italia si prendono cura delle vite, specialmente fragili, di persone care in stato di minima coscienza o, comunque, in quella condizione che ancora chiamiamo "stato vegetativo”, e che le continue conquiste della scienza ci inducono a non definire più “permanente”, ma “persistente”. Un aggettivo, questo, che lascia aperta la porta della speranza. Anche se la dura sostanza della prova non cambia. Quella parola diversa e più giusta – “persistente” – illumina e un po’ rincuora, ma non può alleviare l’appassionata fatica di “stare accanto” a una persona che c’è ed è pienamente umana, ma non può entrare in relazione come prima dell’evento che ha inciso così profondamente sulla vita sua e di chi le vuol bene. E tanto più in un Paese come il nostro dove, prendendo purtroppo esempio dall’involuzione già avvenuta in altre democrazie europee (penso in particolare ai casi estremi del Belgio e dell’Olanda), nonostante l’ancora radicata e vasta cultura della solidarietà della gente, la politica si mostra più intenta a offrire risposte a chi conduce campagne per la “morte a comando” irrogata dalla Stato che a rimuovere ostacoli morali e materiali, d’indifferenza o di pregiudizio, davanti a uomini e donne colpiti da grave e gravissima inabilità o affetti da malattie che possono essere curate, ma non ancora guarite e nei confronti di quanti si battono davvero per la “vita degna” di congiunti, persone amiche o semplici concittadini che sperimentano tali condizioni.

Conosco da anni Giovanna e Faustino Quaresmini, i genitori di Moira, e so che sono persone normali e straordinarie, buone e generose e anche per questo attorniate da tanta solidarietà “dal basso” che rende meno solitaria la loro lotta per e con Moira. Da credenti hanno, in più, la forza delle preghiera. Grazie, caro Enrico, per averci fatto condividere – anche mormorandola con pudore, a fil di labbra – la stessa preghiera di papà Faustino. Hai ragione: il tanto bene umano e spirituale che si accende e avviene attorno a Moira, e che da Moira proviene nel tempo della sua inermità, per chi ha occhi, mente e cuore aperti è «una prova dell’esistenza di Dio». In qualche modo la stessa che accese la preghiera di Etty Hillesum nel tempo della follia nazista e dell’apparente trionfo “finale” della morte e che la portò a scrivere, come tirando le fila di tutte le piccole e grandi vicende umane, che «le cose sono, dovunque, completamente buone e, nello stesso tempo, completamente cattive». È una frase che mi torna in mente ogni volta che mi misuro col mistero delle prove “ingiuste” che sfidano la nostra libertà, la nostra responsabilità e il nostro amore e che a libertà, responsabilità e amore danno senso più profondo. Vorrei, con te e con Giovanna e Faustino, che i nostri parlamentari la sentissero come un richiamo personale, scomodo ma inevitabile. L’insieme di norme sul «fine vita» che si stanno votando alla Camera e, soprattutto, il passaggio sull’alimentazione e l’idratazione delle persone che non riescono ad alimentarsi da sole, può essere – e non voglio avere dubbi su questo punto – buono nelle intenzioni, ma contemporaneamente è cattivo nell’esito che prefigura e nelle pratiche eutanasiche che minaccia di ingenerare. Continuo a sperare, e qualche piccolo segnale c’è stato anche nelle ultime ore, che non ci si irrigidisca, magari rinchiudendosi in una trincea di idee che danno “corpo” solo alla sofferenza di chi arriva a chiedere che gli sia data la morte. Morte che nessuno dovrebbe mai dare all’altro e che, in qualunque forma, non deve mai più essere un potere del “sovrano”, travestito da libertà dell’individuo. Continuo a credere che un legislatore deve sapersi invece chinare ad ascoltare la realtà più umile, e meno suggestiva e titanica, di quanti affrontano con gioia la difficile fatica di vivere e di servire la vita. Senza servirsene mai, e senza scartarla in alcun modo.


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