mercoledì 29 aprile 2009
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Il bianco era il colore più atteso, all’Aqui­la, nel grigio di una piovosa mattina di a­prile, che stenta ad aprirsi alla primavera. La veste del Santo Padre, recatosi ieri in visita a Onna e all’Aquila, è stata sommersa da al­tri colori. Erano quelli dei k-way e della ma­glieria ancora invernale, altrui o recupera­ta a casa, della gente che lo attorniava, nel bagno di folla più anarchico di tutto il suo pontificato. Le stecche degli ombrelli si so­no avvicinate pericolosamente allo zuc­chetto bianco; sotto ad essi, mamme con figli piccolissimi in braccio non rinuncia­vano alla carezza del Papa fatta sulla testi­na dei piccoli. Non era la carezza notturna del discorso alla luna di Giovanni XXIII, qua­si mezzo secolo fa, su una piazza san Pietro e su una via della conciliazione immortala­te gremite. Era la carezza del sole velato, del­l’alone cinereo che ha riconsegnato l’Aqui­la, nel periodo successivo alla Pasqua, a un’atmosfera quaresimale. «Sono finalmente con voi, in questa terra splendida e ferita», ha detto il Papa e que­sto ha fatto sobbalzare due volte il cuore a­gli abruzzesi, nella seconda e nell’ultima pa­rola. Perché il 'finalmente' esprimeva la fi­ne di un’attesa, così vibrata umile incon­sueta per un capo di Stato, per un capo del­la cristianità messosi quasi in coda a politi­ci, giornalisti, scrittori, cantanti e passerel­listi. E nell’ultimo aggettivo, 'ferita' perché che la loro terra – chiamata cuore verde d’Europa – sia bellissima gli abruzzesi lo sanno bene, ma 'ferita' non lo era fino al 6 aprile. Non nuovamente ferita, almeno, dal nemico di sempre, generato dalla stessa ter­ra, che le ha inflitto ferite mortali nel 1703 coi tremila morti dell’Aquila, nel 1706 coi mille di Sulmona e nel 1915 coi trentamila di Avezzano. Tutta la storia d’Abruzzo è scan­dita dai terremoti. Questo bianco nell’anarchia della folla, che l’apprensione della security non riusciva a tenere lontano dalle mani della gente, ha ri­chiamato un’altra immagine, quella di un predecessore sia di Benedetto XVI, sia di Giovanni XXIII: l’immagine di Pio XII reca­tosi tra le macerie di San Lorenzo a Roma, dopo il bombardamento alleato durante la seconda guerra mondiale, quando il fondo della veste tinse il bianco di altri indicibili colori, e fece come oggi il giro del mondo. «Vi sono stato accanto fin dal primo mo­mento – ha detto Benedetto XVI – la mia presenza qui vuol significare che il Signo­re crocifisso vive, è con noi e non ci ab­bandona ». Ogni parola che non portasse i segni della passione a questa terra ferita sa­rebbe stata impropria, ma il Papa non è ve­nuto solo nel segno della croce, è venuto anche nel segno della Pasqua, della resur­rezione, e ha detto le parole che solo lui è autorizzato a dire: «I vostri morti sono vivi in Dio e attendono da voi un segnale di co­raggio ». Era l’annuncio atteso, per ogni cuo­re che non si rassegna alla perdita. Mentre quelle parole di vita eterna venivano pro­nunciate, forse un cameraman si è distrat­to e ha zoomato su cento metri di macerie, di tetti collassati, di muri sventrati e que­sto parlare di resurrezione in uno scenario di morte è stato il più grande e involonta­rio regista del mondo. Poi il Papa ha lasciato Onna, paese-simbo­lo del dolore ed è andato all’Aquila. Si è re­cato alla casa dello studente prima che alla basilica di Collemaggio e alla Scuola della Guardia di Finanza, perché questo è stato il terremoto degli studenti, dei morti giovani, dei sommersi e dei salvati che fino a un me­se fa avevano, tutti, davanti una vita che sembrava – coi suoi problemi, con le sue speranze – lunga. Il Papa si è avvicinato a de­gli studenti. A uno d’ingegneria, che non rientrerà nell’accartocciata facoltà di Roio, costruita con la plastica al posto del ce­mento, ha detto: ci vogliono ingegneri e tec­nici più bravi di quelli che hanno costruito qui; bisogna ricostruire. L’immagine che resta nel cuore di tutti è quella, finale, del Papa nella spianata che fu occupata dai prati di fiori sulle bare. Accanto a quella del pastore entrato a Collemaggio a guardare il suo predecessore Celestino V, incoronato qui nel 1294, coi mattoni spar­si in terra a due passi da lui, nella grande basilica distrutta. È stato un pastore lonta­no dal fasto. È stato un pastore tra le mace­rie. È stato un pastore del suo gregge.
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