martedì 31 marzo 2020
Il modo per utilizzare, e presto, le nuove tecnologie per contenere i contagi
La tracciabilità è un anti-virus

Ansa

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Caro direttore, si discute con sempre maggiore intensità sulla cosiddetta «tracciabilità» dei contagiati, ovvero sull’uso dei big data e delle nuove tecnologie per contenere la letale epidemia da coronavirus sull’esempio di quanto realizzato in Corea del Sud. Andrea Lavazza ne ha scritto sabato 28 marzo («E sia, tracciateci. Ma solo per poco» ) qui su “Avvenire”.

Ricostruire la posizione dei contagiati e metterla in relazione geografica con le posizioni di altre persone (ovviamente dotate di cellulare) presenti nella stessa zona nel medesimo momento, condividendo i dati anche tramite app, può davvero rivelarsi risolutivo. Per far ciò è indispensabile disporre della posizione geografica e dei movimenti nel tempo sia dei contagiati, sia di tutti quelli che desiderano essere informati del rischio contagio che li potrebbe riguardare.

È chiaro che si tratta di strumenti fortemente invasivi della privacy, come Lavazza, altri alcuni commentatori e lo stesso Garante non hanno mancato di sottolineare. In primo luogo si pone, dunque, il tema del “se” utilizzare questi sistemi. Il che implica di affrontare sul terreno giuridico il delicato problema del bilanciamento tra tutela della vita e della salute pubblica e individuale, da un lato, e preservazione della privacy, dall’altro. Il faro di tale bilanciamento non può che rinvenirsi nella giurisprudenza della Corte costituzionale che in più sentenze, anche recenti, ha riconosciuto che il bene della vita costituisce il «primo dei diritti inviolabili dell’uomo» protetti dalla Carta fondamentale. Le misure tecnologiche emergenziali, inoltre, paiono anche compatibili, oltreché con il nostro Codice della privacy (art. 2 sexies), con il diritto dell’Unione Europea, in particolare con il Regolamento sui dati personali (Gdpr), che consente limitazioni alla riservatezza per motivi di sanità pubblica.

La limitazione della privacy, nel diritto dell’Unione, viene considerata misura «necessaria e proporzionata» che una società democratica può applicare «per la salvaguardia della sicurezza pubblica, ivi comprese la tutela della vita umana, in particolare in risposta a catastrofi di origine naturale o umana» (Considerando n. 73 del Gdpr). Il tema si sposta, dunque, sul “fine” da raggiungere e sugli “strumenti” da utilizzare. L’obiettivo non può che essere quello dell’uscita dall’emergenza: occorre dunque che gli strumenti messi in campo abbiano solo ed esclusivamente questa finalità.

Essi, dunque, devono essere «necessari» (ma sul punto non occorrono dimostrazioni) e «proporzionati» al fine che si intende raggiungere. I dati raccolti non potrebbero essere in alcun modo ceduti a privati e andrebbero distrutti sotto un rigoroso controllo pubblico, una volta cessata l’emergenza. Questa disciplina dovrebbe essere ovviamente inserita in un decreto-legge, il cui contenuto andrebbe condiviso, sotto il profilo politico, con le opposizioni. Un primo passo, senz’altro da apprezzare, sulla strada sopra indicata è l’iniziativa assunta dal Ministero per l’innovazione, che ha pubblicato un bando per fare una ricognizione delle aziende disponibili a utilizzare le nuove tecnologie per fermare l’epidemia.

È, però, importante coinvolgere nell’operazione anche i giganti del web, facendo superare la naturale ritrosia che possono avere a dimostrare di quanti e quali nostri dati sono già oggi in possesso. Però bisogna fare in fretta ed evitare che la burocrazia la faccia da padrona: non è il momento, è in gioco la vita di tutti noi, dei nostri cari e dei nostri concittadini.

Costituzionalisti, Università di Torino e Università Europea di Roma

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