venerdì 11 dicembre 2009
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Silvio Berlusconi ha scelto ieri una sede internazionale, seppure di partito, quella del vertice del Partito popolare europeo, per rilanciare con sferzante durezza la sua polemica sulla sovranità popolare che sarebbe manomessa da organi di garanzia che – a suo avviso – si comportano come soggetti politici, a cominciare dalla Corte costituzionale. È un segno di aumento della tensione, che pare non tener conto né degli appelli al "disarmo" che erano venuti dai più autorevoli esponenti del mondo cattolico, né – se si tiene conto della sede in cui il premier ha parlato – dell’invito recentemente rivolto dal presidente Giorgio Napolitano a non utilizzare sedi e incontri europei per mettere clamorosamente in scena polemiche nostrane.L’impressione che si ricava è una sorta di scelta di esasperazione del conflitto che esprime anche una certa preoccupazione. Come ha ricordato il presidente dei Popolari europei Wilfried Martens commentando le parole del presidente del Consiglio italiano, Berlusconi dispone ancora una volta di una delle più ampie maggioranze parlamentari del dopoguerra, il che dovrebbe consentirgli di avanzare concretamente proposte di riforma, anche istituzionale, il cui percorso, peraltro, non è certo agevolato dal ricorso a toni di sfida. Il Quirinale aveva recentemente rassicurato il premier che la sua posizione resta garantita finché gode di un sostegno parlamentare omogeneo al responso elettorale del 2008, il che spiega il profondo sconcerto e la motivata amarezza che l’attacco di Berlusconi ha suscitato. D’altra parte è difficile negare che il sistema italiano viva una pesante difficoltà: dire "giustizia e politica" significa evocare una contraddizione permanente nella cosiddetta Seconda Repubblica. E una patente contrapposizione tra le indicazioni dell’elettorato e taluni poteri (anche di garanzia) dello Stato.Affrontare questo nodo, intervenendo ove necessario su articoli considerati obsoleti della Carta costituzionale, ovviamente è legittimo, se lo si fa seguendo le procedure previste. Le strade sono due: quella di riforme con un ampio consenso che raggiunga i due terzi del Parlamento (ipotesi che richiede un apporto dell’opposizione) o quella di riforme a maggioranza, che richiedono la convalida di un referendum popolare per il quale non è necessario un quorum di validità. Nonostante la volontà espressa coralmente in Senato la settimana scorsa per la ricerca di un percorso unitario e condiviso, la mossa di Berlusconi e il suo richiamo insistente alla sovranità popolare sembrano segnalare una sua scelta diversa, probabilmente in conseguenza del rifiuto più o meno esplicito della maggiore forza di opposizione a intervenire sulle norme costituzionali sulla giustizia. Se la maggioranza seguirà questa indicazione la via indicata è quella della riforma da confermare col referendum, e l’accentuazione dei toni appare funzionale a motivare l’elettorato alla partecipazione; se invece le difficoltà interne, soprattutto quelle con il presidente della Camera Gianfranco Fini, dovessero rendere impraticabile questo percorso, si potrebbe aprire di nuovo la prospettiva di un ricorso a elezioni anticipate. Si tratta di prospettive estreme, che preludono a una battaglia campale senza esclusione di colpi, sulle quali è ovvio si addensino molte preoccupazioni.Resta un esile filo di speranza, tenuto vivo anche dal carattere fermo ma con un forte richiamo a una «leale collaborazione» delle reazioni di ieri del Quirinale: con l’auspicio che alla fine prevalga l’interesse del Paese che spinge a un effettivo disarmo bilaterale. Questo potrebbe accadere solo se l’esibizione muscolare del premier avesse il senso di una dimostrazione di forza per affrontare da posizioni migliori una trattativa e un confronto. Ma questa oggi appare solo una timida speranza. Eppure tener cara una simile prospettiva è oggi, dal punto di vista del Paese, un dovere.
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