sabato 9 novembre 2013
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Disonesta ricchezza, pane sporco. La corruzione ci sta in tavola, che possia­mo fare? La giustizia che noi tutti conce­piamo e reclamiamo, tutti, è che se non si riesce a far osservare spontaneamente le giuste regole, deve almeno venire il mo­mento di rendere il conto. Possiamo chia­marlo il momento della verità, riconoscen­za o vendetta, e i nostri riti processuali di­cono d’esser fatti per questo. E a questo ten­dono, pur zoppicanti e tardivi quanto sono, gravidi di castighi come nuvole nere, e a vol­te esorbitanti ed errabondi, sopra un pano­rama già irreparabilmente devastato dal­l’ingiustizia compiuta. L’onestà è un altro sogno, è un’altra nostal­gia.
La strada diritta della giustizia c’è, ed è 'bella', disegnata dalla regola giusta: poi storpiata dal cammino, poi ripristinata dal giudizio. Oppure no, macché ripristinata, se quel che si pensava cancellato frattanto ci sta ancora addosso come una lebbra sulla pelle, pronta a ripropagarsi. L’Italia è la culla del diritto. Sul giusto ab­biamo pensato e scritto le più belle pagine della civiltà umana. Ma sulla pratica del giu­sto siamo ora agli ultimi posti: e ci sta sul col­lo un fiato guasto, una parola che puzza, che dice più che la deviazione il cancro, il mar­cio dentro il frutto, qualcosa che si decom­pone: la corruzione. Corruzione è l’insul­tante verità che ci mette al 72esimo posto della classifica, come i Paesi del Terzo Mon­do (ai quali chiediamo scusa per il parago­ne, se pensiamo alla loro disperata servitù).
Corrotti, marci, ecco cosa dicono di noi. Viene in mente l’uragano di Tangentopoli che vent’anni fa scoperchiò la cloaca del malaffare tra politica e imprenditoria, rove­sciando l’indignazione popolare su quelle fogne, talvolta con qualche semplificazione riduttiva, risucchiando nel vortice gli uc­cellacci e gli uccellini. Ma neppure la sua di­smisura, storicamente e criticamente rilet­ta, ha mutato radicalmente il quadro. Quan­te volte se n’è scritto, in questi anni, su que­ste pagine : la marea si è ricomposta sopra le onde squassate, la corruzione si è ridata fiato, i favori e le bustarelle, a quanto si è ap­preso dalle nuove indagini e dai nuovi pro­cessi e dalle nuove cronache d’opinione, hanno ripreso la scena.
Ci trasciniamo den­tro una 'mafiosità' sofisticata che non ha ri­ti affiliativi ma prassi di privilegio. Possiamo persino partire da ciò che è legalizzato, ma sta come figura scandalosa nella disinvol­tura dei benefits di casta, che oggi pagano la vergogna della pubblicità dei rimborsi cen­surati e ridicolizzati. Abbiamo poi avuto no­tizia di compravendite politiche, a denaro sonante. E resta il costume faccendiero del­le buste, che fa di parole innocenti, come ad esempio appalto pubblico, parole scon­ce da non dire in presenza di bambini. Ci so­no favori comprati, c’è schifo, fra noi.
Ieri, nella Messa, c’era un vangelo difficile: quello dell’amministratore infedele chia­mato a rendiconto. Il papa Francesco l’ha detto e spiegato. Con la semplicità inflessi­bile dei miti di cuore, è stato dolce e duris­simo, quando ha parlato del «pane sporco» consegnato ai figli. Della dignità ferita dal­l’abitudine alla tangente, che è «fortemen­te peccatrice». Io non so quanti capiranno subito il senso evangelico della parola, la sua dirompente rivoluzione, la sua ricadu­ta coerente sulle azioni di giustizia, sulle re­gole di giustizia, sulle condotte umane se­condo giustizia. È una parola aspra, la giu­stizia, e la ricchezza ha già il suo daffare a presentarsi con la menzogna del mezzo pol­lo fra affamati e satolli rigurgitanti. La rapa­cità disonesta è un’idolatria che avvelena l’anima e fa marcire il villaggio sociale, a qualunque politica si ispiri.
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