giovedì 3 ottobre 2013
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Il test lo possiamo tentare sui figli, gli amici, i colleghi, o più semplicemente su noi stessi: quali sono le tue vere ambizioni nella vita? E una volta che le hai elencate, poche o tante che siano, avresti il coraggio di aggiungere da qualche parte anche "essere santo"? Bene che vada, ci sentiremmo rispondere "che pretese... faccio quello che posso!", nella comprensibile persuasione che una cosa è parlarne in generale – chi potrebbe negare che i credenti dovrebbero tendere al culmine della loro vocazione? –, tutta un’altra crederci al punto da considerare la meta della santità plausibile, concreta, persino a portata di mano. Cinquant’anni alla scuola del Concilio che dispiegò davanti alla Chiesa e al mondo l’inaudito orizzonte della «chiamata universale alla santità» (Lumen gentium, capitolo V), modernissima prospettiva che ancora oggi appare come un continente pressoché inesplorato, non sono bastati per far stare a proprio agio il cardine della vocazione cristiana nella vita dei credenti di ogni ordine e grado. D’altra parte, come contraddire il realismo che ci sovrasta? La polvere e il fango del quale è impastata la quotidianità di tutti è un’esperienza così vivida e presente da scoraggiare il più nobile degli ideali decurtandolo al rango di volo pindarico, per quanto pio. Santo io? Stiamo scherzando? La santità però non è questione di autostima: se così fosse, trasformeremmo la Chiesa in un immaginario club della perfezione dal quale è bandita qualsiasi impurità. Il Paradiso in terra. Ma «questa è un’eresia!»: lo dice – anzi, lo esclama – Papa Francesco, che tra i tanti pregi ha certamente quello della franchezza. E che ieri in piazza San Pietro davanti a 50mila pellegrini accorsi per la sua settimanale catechesi ha bollato come errore dottrinale grave l’idea di una «Chiesa dei puri, di quelli che sono totalmente coerenti», dalla quale «gli altri vanno allontanati». Una tentazione ricorrente, a ben guardare, l’eresia terra terra di credersi a posto perché si fa parte del giro "giusto", o semplicemente si sta dentro il lindo recinto delle pecore ben pettinate mentre là fuori scorrazzano i lupi. Sul fronte opposto di questo cristianesimo egocentrico che si risolve in una «Chiesa chiusa in se stessa» c’è l’autoconvinzione che siamo troppo lontani dalla perfezione cristiana per sentirci davvero impegnati a proporcela come obiettivo plausibile. Tutt’attorno, quel che vediamo nella stessa Chiesa e che Francesco non si stanca di mostrare paternamente quasi ogni giorno come forma degenerativa dell’esperienza di fede pare confermarci che no, la santità è impossibile, togliamocela dalla testa. Nessuno è risparmiato dal tarlo mortale, tanto che è inevitabile ascoltare dentro di sé la voce che il Papa stesso fa affiorare come un grido: «Come può essere santa – s’è chiesto lui stesso ieri – una Chiesa fatta di esseri umani, di peccatori?». E per non restare nel vago, è passato a enumerare: «Uomini peccatori, donne peccatrici, sacerdoti peccatori, suore peccatrici, vescovi peccatori, cardinali peccatori, Papa peccatore... Tutti. Come può essere santa una Chiesa così?». Ecco il punto: dipendesse da noi, nessuno escluso, il Vangelo resterebbe semplicemente un bel saggio filosofico, che ha per protagonista un grand’uomo e indica un ideale altissimo ma non incrocia davvero la vita concreta, quella che a volte ci pare irrecuperabile tanto è appesantita dalla realtà. A rovesciare questo sguardo angusto è però il sentirci ripetere con semplicità da Francesco che è la Chiesa a essere santa, e «non per i nostri meriti» ma «perché procede da Dio che è santo», perché «Gesù Cristo, il Santo di Dio, è unito in modo indissolubile a essa», perché «è guidata dallo Spirito Santo che purifica, trasforma, rinnova». Lo splendore e la certezza di questo fondamento che sta al cuore della nostra fede è la radice della serenità e della fermezza con la quale il Papa per primo vede e affronta rughe, sbagli e piaghe, persino la «lebbra», quando e dove la vede all’opera.La Chiesa che si sa santa non per suo merito ma per inesauribile riflesso divino non può che spalancarsi fiduciosa al mondo, diventando «la casa di tutti, dove tutti possono essere rinnovati, trasformati, santificati». Che i primi a tentare di farlo siamo tu e io, alla fine, è solo una rincuorante conseguenza.
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