giovedì 7 novembre 2013
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Valori è una parola tra le più belle del nostro vocabolario. Ci dice, da sola, che i valori morali, il valore economico, ciò che per noi vale, che ha valore e dà valore ai beni e alla vita, sono tutte facce dello stesso prisma civile e culturale di un popolo. L’operazione davvero utile, ma molto difficile, è l’interpretazione delle analisi sociologiche che, come quella del Censis, cercano di trasformare la qualità in numeri, dedurre i nostri valori da risposte a questionari. L’economista Otto Albert Hirschman aveva colto molto della dinamica culturale e civile delle nazioni, quando negli anni Ottanta ci spiegò che esiste una specie di "ciclo politico-economico" che nelle società fa alternare stagioni di felicità privata a stagioni di felicità pubblica. Il dopoguerra, e poi gli anni 60-70 del Novecento, sono stati per l’Italia anni di felicità pubblica, quando la gente trovava la propria realizzazione piena nell’impegno politico e civile, e quando l’appartenenza a realtà più grandi della propria famiglia plasmava i nostri progetti di vita, e i nostri sogni. Con la fine delle ideologie, la fine del secolo scorso e l’inizio di questo millennio stanno invece mostrando una lunga fase di ritorno alla ricerca di felicità privata, una stagione caratterizzata dalle passioni e dagli interessi individuali, da meno piazza e da più divano. Ci siamo ritrovati senza grandi narrative collettive, e così, un po’ spaesati e smarriti, siamo tornati a casa. Il grande boom dell’offerta dei beni di confort ha sostituito molti beni di creatività, quali l’impegno politico e civile, i beni relazionali, e ha determinato una diminuzione della felicità individuale e collettiva dei Paesi occidentali, di cui oggi tanto si parla a proposito e sproposito.In realtà, la natura culturale dell’Italia e dell’Europa mediterranea, cattolica e latina è costituita proprio dall’intreccio di felicità private e di felicità pubbliche, e dalla certezza, nata dalle mille ferite della nostra lunga storia, che la felicità privata non dura e non è piena senza quella pubblica: quando dopo o prima del divano non c’è la piazza, o quando la piazza è quella dei talk show televisivi, il divano diventa un nemico della felicità, ci toglie giorno dopo giorno la gioia di vivere. Nessuno di noi associa la propria fioritura ai divani e alla tv, ma all’amore, all’amicizia, ai figli, agli ideali. E così se l’Italia è certamente dominata da quello che Guicciardini chiamava il "particulare", cioè la grande tendenza a far coincidere il mondo con la propria famiglia o al massimo della propria comunità, non meno vera e fondativa è la sua anima fatta dalle tante storie di vita civile, di bene comune e beni comuni, di grandi progetti collettivi e comunitari. Non a caso la "pubblica felicità" fu il nome che l’economia moderna prese in Italia, al culmine di secoli di vita civile e di forte spiritualità.Il nuovo rapporto del Censis e la lettura positiva e ottimistica che di essi viene offerta, potrebbero spingerci a pensare che per il nostro Paese si sta avvicinando il punto di svolta nel ciclo "pubblico-privato". Si tratta, infatti, di dati che possono portare a intravvedere un’alba di felicità pubblica dentro l’imbrunire di questi nostri tempi. Domenica scorsa su questo giornale denunciavo il deterioramento di capitali civili e spirituali da cui dipende la gran parte della nostra mancanza di lavoro, di reddito e di prospettive. Quella analisi si rafforza dopo la lettura dei dati del Censis. In effetti, la voglia di comunità e di impegno civile che sembra riemergere dal cuore del nostro Paese che altro è se non una sete e una fame di beni che sentiamo minacciati e che sappiamo essere beni fondamentali per il benessere nostro e degli altri? Per questo il modo migliore e più fruttuoso di leggere lo studio del Censis non è consolarci e tranquillizzarci perché i valori degli italiani segnalano un desiderio e un bisogno di relazioni e di vita spirituale, ma attrezzarci tutti, e a tutti i livelli, per rafforzare quei patrimoni civili e spirituali per far sì che questa domanda e questo desiderio di  antichi nuovi valori civili e morali diventino comportamenti, azioni, stili di vita. I valori sono capaci di cambiamento solo quando diventano prassi e progetti sociali. Questi dati allora vanno letti come un grido di aiuto che si alza della nostra gente, che in questo momento di passaggio epocale sente il bisogno di aggrapparsi alla parte migliore di sé, alle sue radici, alla propria identità antica e grande, per sperare ancora, e di nuovo insieme.
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