Chiarezza anti-barbarie
giovedì 10 settembre 2020

Vecchi e nuovi, sono molti gli interrogativi inquietanti che l’efferato delitto di Colleferro pone alla coscienza collettiva, al di là dell’esigenza di non anticipare giudizi di colpevolezza di singoli individui. È comunque il contesto a lasciare sgomenti, parlando di un clima globale da tempo punteggiato, nella cittadina, da altri episodi, "minori" negli esiti ma frutto, tutti, di una violenza facilmente identificabile nei protagonisti, coperti da un senso di sostanziale impunità comprensibilmente generatrice di paura tra la gente comune. È utile soffermarsi, ma da un punto di vista forse sorprendente, su un aspetto particolare, che a sua volta non riguarda il fatto in sé, ma le reazioni che ha suscitato sui social network, con l’ennesima esplosione di messaggi di un odio che in varie direzioni raggiunge vertici impressionanti.
Semplicemente agghiaccianti, sebbene non ci si possa più stupire di nulla, quelli che inneggiano all’accaduto: fonte, per qualcuno, addirittura di "godimento" e occasione, per parecchi, dello sfogo di velleità sprezzantemente identitarie, individuali, di clan, di razza...

Ma da non sottovalutare neppure quelli di segno contrario che, al di là della ripetizione dello slogan "farli marcire in galera", si spingono sino all’invito al materiale linciaggio per gli assassini. Non cadiamo però nella facile trappola della liquidazione dell’insieme come espressione di «opposti estremismi». Su questo secondo versante credo che la questione sia più complessa, giacché in certe esasperazioni si può avvertire, sia pur portata a conseguenze inaccettabili, un’autentica esigenza di giustizia che, non del tutto a torto, si avverte spesso frustrata. E ad esserne interrogati devono sentirsi soprattutto quanti non vogliono che per nessuno – qualunque crimine abbia commesso – la giustizia debba spegnere la prospettiva di un riscatto e di un reinserimento nella vita sociale; insomma, per usare un’espressione cara anche a papa Francesco, non debba spegnere la speranza.

Senza far neppure mezza marcia indietro a questo proposito, è opportuno prendere atto della domanda di giustizia che si manifesta in quel modo, pur tanto distorto. E la risposta, probabilmente, sta anzitutto in una distinzione. La necessità di non spegnere in nessuno la speranza deve ispirare, e assai più di quanto già non si faccia, la fase dell’esecuzione delle pene. Cardini, istruzione e lavoro, ma anche relazioni umane che non si esauriscano nella pur indispensabile disciplina e soprattutto non soggiacciano alla riproduzione di forme di sudditanza verso boss di ogni genere, assieme a un’assistenza spirituale che valorizzi a sua volta la personalità e le libere scelte di ognuno: possono aiutare davvero – e di fatto hanno aiutato e aiutano – a far emergere totalmente o parzialmente, anche in carcere, un possibile "nuovo essere" del condannato. In questa possibilità, del resto, già trovano la loro più genuina giustificazione i cosiddetti "benefici" come il lavoro all’esterno o la semilibertà, condizionati dal comportamento del detenuto e dal tempo già trascorso in stato di reclusione. E sempre su di essa si regge la richiesta di far cadere, salvi tutti i presupposti e i controlli imposti da ragioni di sicurezza, le norme che per talune categorie di detenuti impongono tuttora a priori un «fine pena mai» (il cosiddetto ergastolo ostativo).

Ciò non toglie, però, che la pena debba, in via di principio, essere ragionevolmente proporzionata, nella sua applicazione, alla gravità del reato commesso e non venire svuotata di efficacia da eccessi di indulgenzialismo. Altrimenti, quell'esasperazione – alimentata, come si può constatare, da ogni parte – rischia, per contraccolpo, di far inserire o reinserire autentici elementi di barbarie nel sistema penale e penitenziario, al di là di quelli che già vi sono rimasti insiti.

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