martedì 5 maggio 2009
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Ciò che, come giurista, mi colpisce maggiormente nell’atteggiamento di coloro che nel nome del valore assoluto dell’autodeterminazione ( un ' diritto di spessore costituzionale'!) ritengono illiberale ogni pretesa di imporre come vincolante l’alimentazione e l’idratazione artificiali, ancorché rifiutate dal paziente con un’esplicita ' manifestazione di volontà' ( anticipata), è il modo rigidamente meccanico con cui essi configurano questo concetto e le situazioni reali che deriverebbero dal suo trasformarsi in precetto. Che il diritto esista per garantire ad ogni soggetto che le sue manifestazioni di volontà vadano prese sul serio e possano produrre i loro legittimi effetti è fuor di dubbio. Ma è pur vero che il diritto presuppone sempre l’esistenza di un contesto dialettico, nel quale volontà possa contrapporsi a volontà, interesse a interesse, come dimostra il fatto che la volontà di un singolo può sempre essere contestata, come produttrice di effetti giuridici, dando luogo a conflitti, la cui la soluzione si ottiene in un unico modo, attivando una controversia dialettica davanti a un giudice, cioè attivando un processo. Nei fautori della vincolatività del testamento biologico, il riferimento al doveroso rispetto delle manifestazioni di volontà del sottoscrittore assume un ben diverso profilo. Da una parte si ritiene di dover rendere un assoluto omaggio a dichiarazioni anticipate di trattamento redatte in tempi antecedenti da un paziente non più in grado di reiterarle e di confermarne la perdurante validità. Dall’altra si pretende di imporre al medico, e per legge, una soggezione non dialettica nei confronti del paziente ( in quanto il medico, di fronte a un paziente privo di coscienza, non è ovviamente più in grado di confrontarsi dialogicamente con lui). Ne segue che ogni possibilità di confronto autentico e reciproco ( cioè propriamente giuridico) tra l’uno e l’altro viene svuotata dall’interno. Ciò che resta è il valore legalmente riconosciuto a una procedura burocratica: la presa d’atto da parte del medico dell’esistenza di un testamento biologico e dei suoi contenuti, la verifica della sua validità formale ( data, firma, ecc.), il riscontro dell’effettiva presenza nel caso concreto delle situazioni patologico- sanitarie ipoteticamente previste nel documento, l’eventuale coinvolgimento del fiduciario, purché correttamente identificabile, e infine l’esecuzione, doverosamente puntuale e integrale, delle direttive contenute nel testamento. C’è, forse, un qualche aspetto di razionalità nella pretesa di rendere vincolanti i testamenti biologici. Si tratta però di una razionalità rigida e fredda, analoga a quella che governa tutte le procedure amministrative, burocraticamente anonime. Quando il rapporto medico- paziente a questo si riduce, avvertiamo tutti che l’identità della medicina si sta alterando e che il malato, il soggetto debole per eccellenza, viene a trovarsi in una situazione di ulteriore fragilità. Non riesco a comprendere, perché non si voglia ammettere che, quando il malato perde la capacità di intendere e di volere, la sua fragilità si dilata a dismisura e che questa fragilità non viene in nessun modo attenuata dall’osservanza cieca e burocratica di direttive anticipate. Abbiamo bisogno di una medicina che vada alla ricerca ( anche nel contesto delle situazioni più tragiche ed estreme) di nuove ( e magari inedite) forme di colloquio tra medico e paziente e non di una legge che avallando pratiche sanitarie obiettivamente eutanasiche faccia perdere alla medicina la sua anima. La fragilità del malato non viene in nessun modo attenuata dall’osservanza cieca e burocratica di direttive anticipate
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