Sessant'anni di nuova Europa, la magnifica impresa
sabato 25 marzo 2017

In un clima di apprensione per le minacce di disordini e intristito dell’eccidio di Londra, l’Europa si celebra oggi a Roma, per ritrovarsi e cercare nuovo slancio, rinunciando solennemente a dirsi addio. Nella convinzione, ci auguriamo in queste ore crescente, che abbandonare o azzoppare oggi l’Unione equivarrebbe a ridurre prima o poi all’insignificanza quelle stesse identità nazionali che si pretende di voler difendere. Con uno sforzo di immaginazione neanche tanto impegnativo, basterebbe del resto pensare a quale peso politico ed economico e quale considerazione internazionale avrebbero, di qui a dieci anni, anche i più forti tra i 27 Paesi che decidessero di mettersi in proprio, per comprendere l’insensatezza di una deriva disgregatrice.

Ma l’Europa che si celebra, sessant’anni dopo la firma dei Trattati istitutivi in un Campidoglio oggi blindato come forse mai prima, può farlo in modo saggio e redditizio solo ricorrendo a una salutare miscela di fierezza e di umiltà. Sarebbe infatti irragionevole, e dunque storicamente ingiusto, minimizzare o lasciare sullo sfondo le conquiste garantite grazie ai Padri fondatori a ormai tre generazioni di cittadini del Continente. A cominciare da quella pace interna tra popoli abituati da secoli a combattersi senza pietà, che la storia ci insegna a non dare mai, ma proprio mai, per scontata e acquisita una volta per sempre.

Non abbastanza considerata nei bilanci dell’unificazione, che di solito si soffermano più sugli aspetti materiali, c’è poi la crescita civile e culturale, l’apertura mentale, la capacità di ascolto e comprensione reciproca di popolazioni abituate da sempre al sospetto, alla chiusura e alla paura di chi, oltre alla lingua, presenta fisionomie e abitudini diverse dalla proprie. Pur nel permanere di antichi pregiudizi e di sciocchi stereotipi (si pensi all’incredibile gaffe sui meridionali d’Europa dell’olandese Dijsselbloem), la consapevolezza di un’appartenenza e quindi di un destino comune è un’eredità preziosa e da custodire con cura, a cominciare dal terreno scolastico e formativo. Come ha invitato a fare papa Francesco nel suo lungo discorso rivolto ieri ai leader Ue, sottolineando le radici cristiane e i motivi di speranza se si rinuncia alla tentazione dell’egoismo.

Fierezza, dunque. Perché ha avuto quanto mai ragione il presidente Sergio Mattarella a ricordarci, nel suo bellissimo discorso in Parlamento di tre giorni fa, che oggi gli europei sono «fatti» più e meglio di quanto sia stata fatta l’Europa. E se da qualche tempo l’edificio comunitario è scosso e vacilla sotto i colpi dei rinascenti populismi, la causa sta proprio nel suo mancato consolidamento in termini di scelte politiche più condivise e lungimiranti.

Scelte più capaci di trasformare un sentimento unitario ancora largamente prevalente in istituzioni solidali e sempre più aperte alle istanze dei cittadini. Da qui deve scaturire la necessaria umiltà, evocata giovedì sera dal presidente delle Conferenze dei vescovi italiani ed europei, il cardinale Angelo Bagnasco. Umiltà a cominciare proprio dalle classi dirigenti nazionali e comunitarie, per saper imboccare la giusta direzione di una riforma interna, che coinvolga il 'centro' imperniato sull’asse Bruxelles-Strasburgo assieme alle 'periferie' continentali geograficamente e socialmente più lontane. Quando Adenauer, De Gasperi, Schuman, con gli altri ispiratori della 'casa comune' così spesso citati in questi giorni, concepirono il progetto di unificazione, da che cos’altro mossero se non dall’umile presa d’atto delle macerie immani causate dai deliri nazionalisti che avevano incendiato il mondo nei decenni precedenti? Ad alimentare quelle fiamme – lo si ammise allora con ammirevole onestà – furono soprattutto i governanti in cerca di gloria e di potere personale, fino al punto di sacrificare il benessere e la vita di milioni di uomini e donne, istintivamente orientati verso ben altri valori: l’amicizia e la collaborazione, l’accoglienza e il dialogo.

Ebbene, altrettanta onestà e umiltà dovrebbe indurre oggi i dirigenti delle 27 nazioni e degli 'europalazzi' a soffermarsi sui guasti prodotti, prima nelle rispettive patrie e poi nel cuore del governo comunitario, da tante decisioni improntate a egoismi personali e di parte, dal ricorso sistematico alla spregiudicatezza e alla sopraffazione nell’azione pubblica. Sia chiaro, l’amore per l’ideale europeo non ci illude certo che basti qualche appassionata perorazione per indurre a nuovi comportamenti virtuosi, a svolte radicali da parte di chi ha già scommesso sul ritorno al passato per garantire a se stesso un effimero futuro. Ma non ci si può rassegnare al tramonto della più grande impresa umana pacifica concepita finora nella storia, che nella sua motivazione più profonda dichiara proprio quell’ispirazione cristiana volutamente e mediocremente negata nel Trattato di Lisbona: saper trarre dal male il bene, dagli errori la speranza, dalla morte la salvezza. Per questo, nel giorno in cui l’Europa si celebra per provare a rinascere, contemplando le bandiere con le dodici stelle di non nascosta origine mariana, non sarà improprio elevare, come cattolici del Vecchio Continente, una silenziosa ma convinta preghiera affinché quell’ideale non tramonti, ma resti a lungo sull’orizzonte dei nostri popoli. E la magnifica e pacifica impresa continui.

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