lunedì 29 settembre 2014
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​Fu sufficiente il tempo di una sola notte perché il faraone dimenticasse il grande dolore delle piaghe, e le uniche preoccupazioni dell’impero tornassero a essere i mattoni e il “servizio” degli israeliti: «Quando fu riferito al re d’Egitto che il popolo era fuggito, il cuore del faraone e dei suoi ministri si rivolse contro il popolo. Dissero: “Che cosa abbiamo fatto, lasciando che Israele si sottraesse al nostro servizio?”. Attaccò allora il cocchio e prese con sé i suoi soldati» (Esodo 14,5-6). L’alba del nuovo giorno ci svela che in quella liberazione non c’era alcuna gratuità.
La prima nota di fondo di tutti i regimi idolatrici è proprio l’assenza di gratuità, che è invece la prima dimensione della fede biblica. La creazione è dono, l’alleanza è dono, la promessa è dono, la lotta all’idolatria è dono. Gratuità è l’altro nome di YHWH. La cultura dell’idolo odia il dono. È il suo primo nemico sulla terra, perché l’idolo “sa” che il contatto con lo spirito di gratuità lo farebbe morire, gli estrarrebbe il suo potere incantatore. Quando si creano regni idolatrici, la prima operazione dei faraoni è allora cercare di eliminare ogni traccia di vero dono dal loro spazio “sacro”, e riempirlo tutto e solo di oggetti e merci. Nel nostro tempo questa cancellazione è tentata banalizzando, deridendo la gratuità, considerandola una nostalgia infantile di adulti mal cresciuti. Poi viene trasformata nei gadget del faraone, nei suoi sconti, fidelity cards e regali innocui consentiti soltanto durante le sue “feste”. Ma il tentativo più subdolo di espulsione della gratuità, è confinarla nel “non-profit”, affidarne il monopolio alle istituzioni filantropiche o agli sponsor che, come il capro espiatorio, hanno lo scopo di addossarsi tutto il dono-gratuità del villaggio, portarlo fuori e farlo morire nel deserto.
E così il villaggio resta nel silenzio. L’idolo non può parlare. E così i suoi adoratori finiscono anch’essi per perdere il dono della parola – è sempre straziante vedere il silenzio assordante che regna nelle sale slot che stanno occupando le nostre città, o nei tavoli dei tabaccai, degli autogrill, dei bar e (ahimè!) delle Poste, dove uomini, e tante donne e troppe anziane, “grattano” in religioso silenzio e in solitudini disperate, tenuti lì ai lavori forzati da nuovi faraoni senza pietà: «Essi [gli idoli] sono indorati e inargentati, ma sono simulacri falsi e non possono parlare» (Baruc, 6,7). Per questo è infinito il valore della parola di YHWH, che non è idolo proprio perché parla, non è un’immagine ma è una voce che può ascoltare la nostra voce e il nostro grido.Il giorno in cui riuscissimo ad appaltare tutta la gratuità ai suoi professionisti, separandola dalla vita ordinaria della città e delle imprese, l’impero idolatrico/separatore sarà compiuto. Quando ogni banca avrà costituito la sua fondazione, quando le multinazionali dell’azzardo e delle armi avranno finanziato tutte le cure delle loro vittime, il veleno (gift) iniettato come vaccino nel corpo dell’attuale capitalismo avrà raggiunto il suo obiettivo, e saremo finalmente salvati dalla gratuità. Il nuovo culto sarà totale, in tutte le ore di tutti i giorni. Ma non ci riusciranno, perché la gratuità ha una grande resilienza, essendo annidata nella parte più profonda e vera del cuore umano. È l’invincibilità della nostra vocazione alla gratuità che fa crollare, prima o poi, gli imperi. E in essa sta la nostra speranza di potercela fare anche oggi.
La visione dei cavalli e dei carri degli egiziani produsse la prima prova degli ebrei fuori dall’Egitto: «Allora gli Israeliti ebbero grande paura e gridarono al Signore. E dissero a Mosè: “È forse perché non c’erano sepolcri in Egitto che ci hai portati a morire nel deserto? Che cosa ci hai fatto, portandoci fuori dall’Egitto? Non ti dicevamo in Egitto: lasciaci stare e serviremo gli Egiziani, perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto”?» (14,10-13). Iniziano qui le «lamentazioni» e le «mormorazioni» del popolo liberato dalla schiavitù dell’Egitto ma che impiegherà molto tempo a liberarsi dal ricordo dell’Egitto e dai vantaggi della schiavitù. Comprendono immediatamente che una volta liberi il rischio di morire aumenta («non c’erano sepolcri in Egitto?»). Con la libertà la possibilità della morte si fa più prossima. Fuori dai campi di lavoro si sperimenta, paradossalmente, una maggiore vulnerabilità, poiché in tutte le schiavitù si crea una forma di alleanza tra oppressore e oppressi: lo schiavo è tenuto in vita perché deve produrre mattoni. Nessun padrone razionale (e gli imperi lo sono) uccide il suo strumento di profitto, è bene tenerlo in vita per sfruttarlo fino alla fine. Anche per questa ragione se abbiamo paura di rischiare la vita, non liberiamo nessuno – come sanno bene i martiri di ieri e di oggi.
La libertà è un “bene” delicatissimo e complesso. La cerchiamo, la desideriamo, la bramiamo durante le schiavitù, ma non appena liberati ci accorgiamo che anche la nuova condizione ha dei costi, le sue tipiche sofferenze e fatiche. E così, quasi sempre, finiamo per rimpiangere la schiavitù e i suoi “beni” (che durante le prove della libertà vengono amplificati e idealizzati).La principale fatica di chi vive o accompagna processi di liberazione è restare liberi dopo essere stati liberati, perché il periodo trascorso nelle schiavitù non ci prepara alla gestione faticosa della libertà reale. È difficile liberarsi da una relazione patologica con un uomo violento; più difficile è resistere e non tornare da lui durante le serate trascorse da sola tra le lacrime («è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto»). Era stato difficilissimo affrancarsi dai padroni che garantivano appalti e lavori all’impresa che avevo ereditato dalla mia famiglia; è ancora più difficile non tornare oggi a bussare a quelle antiche e sicure porte, quando la crisi economica è forte, il lavoro non c’è più, e gli “Egiziani” stanno per raggiungerci («Non ti dicevamo in Egitto: “Lasciaci stare e serviremo gli Egiziani?”»). I processi di vera liberazione sono molto lunghi, e una volta usciti dalla terra della schiavitù siamo solo all’inizio del cammino. E senza un Mosè (un amico, un’associazione, un’istituzione pubblica, una madre, un figlio …) che continua a credere nella promessa e nel valore della liberazione, a credere anche per noi, finiamo spesso col ritornare schiavi.
Il libro dell’Esodo è allora un grande esercizio spirituale ed etico non solo per chi inizia le liberazioni, ma anche per chi deve resistere nella libertà, nei lunghi cammini dopo l’uscita dall’Egitto. Anche per questa ragione il Dio biblico non è il dio dello spazio (lo spazio è occupato dagli idoli); è il Dio del tempo, che ci chiama a uscire, a camminare attraverso i deserti verso una promessa che è sempre oltre i confini delle nostre certezze e delle nostre paure.Questa prima prova del popolo e di Mosè nei pressi del mare, contiene poi un insegnamento rivolto in modo tutto particolare a chi fonda (ma anche a chi deve continuare) comunità, opere, movimenti, organizzazioni a movente ideale. Si risponde a una chiamata, si inizia un grande processo di liberazione per sé e per tanti, si parte e si prende la via del mare. Ma al termine della notte della liberazione non si trova una via di salvezza, ma un muro che appare insormontabile. Il faraone ci insegue, il mare ci sbarra la strada, e anche il popolo che abbiamo salvato protesta, e sembra voler tornare indietro annullando il senso e il dolore di quella storia di salvezza. Sono queste solitudini fedeli le prove tipiche dei fondatori, da cui si esce se si è capaci di imitare Mosè: «Mosè rispose: “Non abbiate paura!”» (14,10-13). Anche Mosè avrà avuto paura, forse più di tutti, ma riesce a incoraggiare e rincuorare: «Non abbiate paura». Queste prove investono l’intera comunità (tutti hanno paura), ma il fondatore/responsabile vive una prova doppia: la paura di tutti per la possibile morte imminente e l’abbandono da parte della comunità. Si riesce a non morire e ad attraversare il mare se almeno Mosè continua a credere, a sperare, a resistere, sentendo e agendo nella direzione opposta a quella che vorrebbe imboccare la comunità impaurita.
Ci sono momenti decisivi nella vita delle comunità e delle istituzioni quando la salvezza arriva se nei suoi responsabili c’è la capacità-virtù di non cedere e non assecondare le paure collettive, di remare contro corrente, di resistere allo scoramento del popolo, di continuare a credere nella promessa che un timore imminente e realissimo sta spegnendo. Chi governa cercando sempre il consenso di tutti o della maggioranza del popolo, può essere un buon leader nella vita ordinaria dei “campi di lavoro”, ma non salva nessuno nei momenti delle grandi prove collettive, dove serve la sapienza di resistere muovendosi con fatica, e nella solitudine, in direzioni diverse da quelle che vorrebbe la comunità impaurita e mormorante. Questa capacità-sapienza di continuare a muoversi in direzione ostinata e contraria è particolarmente preziosa anche per l’arte del politico nei tempi delle grandi crisi – un’arte che è tutta gratuità, e quindi molto rara nel tempo dell’idolatria.E a chi, schiacciato tra gli “egiziani” e il “popolo”, riesce a resistere, può capitare di assistere al miracolo del mare che da muro invalicabile si trasforma in cancello aperto verso la terra della promessa: «Gli israeliti entrarono nel mare sull’asciutto, mentre le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra» (14,21-22).l.bruni@lumsa.it
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