giovedì 21 aprile 2016
La gita mancata e i «lager» nella testa
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Possiamo tirare una conclusione provvisoria, in attesa di quel che diranno gli ispettori, sul caso della bambina di Legnano, alunna di terza media, a quanto pare rifiutata dai compagni (e dai professori), che dovevano andare in gita a Mauthausen, perché è autistica. Così fu lanciata la notizia, che adesso di giorno in giorno cambia un po’. Più cambia, meglio è. Ci leva un peso. Tutti ne abbiamo parlato, appena arrivò. Anch’io. Ti chiamano radio, tv, giornali, e dici la tua, a tamburo battente. Poi ti arrivano le email di risposta, a decine. Molte sono d’accordo con te, ma alcune vanno più avanti. E ti devi spostare su nuove posizioni. Da queste nuove posizioni, torno sul caso. Il caso continua a parermi sgradevole per molte ragioni, tra cui: l’iniziale unanimità della decisione di escludere la bambina, il pieno accordo tra i compagni di classe, che da due mesi si scambiavano messaggini. A quanto pare, nessuno voleva dormire in camera con quella compagna. I ragazzi di terza media sono ancora immaturi, ho argomentato, non capiscono la gravità delle decisioni che prendono, a volte fanno del male senza rendersene conto. «Sbaglia – mi risponde un docente –, io insegno nella media inferiore, e le assicuro che sono sveglissimi, sanno molto più dei loro coetanei di una volta, ma sono egoisti».  Nella notizia, quello che stupisce di più è che eran d’accordo anche i professori: meglio andare in gita, che prevede una nottata in albergo, senza la piccola autistica. Meno problemi, più allegria. Io, personalmente, non capisco come si possa pensare una gita a Mauthausen come una scampagnata. Per me, Mauthausen era ed è un problema, un angoscioso problema. Quel lager è noto come il più crudele di tutti. Fa parte della città. La collina a ridosso della città è coronata da una cinta muraria ampia, e i casamenti dentro le mura erano il lager. Sicché il lager lo si vede da chilometri di distanza. Eppure, quando ci sono arrivato per visitarlo, e chiedevo a tutti dov’era il lager, tutti mi rispondevano: 'Quale lager? Mai sentito, non c’è, vada via'. Ne avevo tratto l’impressione che i residenti non solo fossero stati complici una volta, ma fossero complici ancora. Errore, del quale chiedo scusa. È uscito un libro in Francia, tradotto in Italia da Marsilio col titolo All’ombra della morte, in cui due giornalisti francesi interrogano le persone del luogo su come mai non si accorgessero dei prigionierischiavi. Apprendiamo così che gli abitanti che passavano davanti alle cave dovevano scendere dalla bicicletta e avanzare a testa bassa, senza alzare gli occhi. Le SS li controllavano. Di sera le SS andavano all’osteria e si ubriacavano. Le ragazze del paese si allontanavano. Quelli le fermavano e chiedevano: 'Ti faccio paura?', 'Sì', 'Cos’è che ti fa paura?', 'Questo', e indicavano il teschio da morto sul frontino del berretto.  Un lager era un luogo di logoramento e di eliminazione dei cosiddetti inferiori, ebrei, prigionieri, zingari, omosessuali, ma anche disabili e imperfetti. Un luogo di selezione della razza. E cosa fanno, scolari e insegnanti di quella terza media, escludendo la bambina autistica? Fanno una selezione, scelgono i perfetti della loro classe. Se la selezione è una strada molto lunga, in fondo alla quale sta il lager, questa terza media percorre il primo metro. Così ho scritto e dichiarato. Errore, mi fa osservare un interlocutore: non è il problema di una classe, se fosse così si potrebbe risolverlo in fretta, è un problema d’impostazione generale della società. Genitori e professori (non solo di quella scuola) insegnano che la vita è competizione, chi si ferma (magari per raccogliere un compagno caduto) è sconfitto, non vincerà. Il problema non è una scuola. È una cultura, anzi una civiltà. «I nostri figli non sono dei mostri», dichiara una madre. Credo voglia dire che non sono tanto diversi dagli altri, non fanno eccezione. Temo che abbia ragione. Aggiungo: purtroppo.
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