sabato 16 maggio 2009
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Nel 1950 ogni bimbo tedesco nasceva con un debito virtuale corrispondente a 188 euro odierni. Una somma indispensabile, ancorché molto bassa, perché la Germania uscita dalle macerie della Seconda guerra mondiale potesse risorgere e ridiventare la potenza industriale che dagli anni di Bismarck in poi aveva deciso di essere. Oggi però ogni neonato tedesco si ritrova sulle spalle un fardello di almeno 22mila euro, di tanto è indebitato fin dal suo primo respiro. Per noi italiani non sarebbe un gran problema: il disavanzo pubblico (ossia l’ammontare della spesa pubblica non coperta dalle entrate) è stranoto e ci abbiamo fatto l’abitudine, ma per i tedeschi, per quella che da sempre è considerata la locomotiva d’Europa, è uno choc che si riflette perfino sui comportamenti quotidiani, visto che almeno metà della popolazione ammette di vivere sotto stress a causa della crisi economica. Ma i dati fuoriusciti in questi giorni dallo Statistisches Bundesamt e dal ministero delle Finanze sono ancora più allarmanti: nel primo trimestre del 2009 il Pil tedesco è arretrato del 3,8% rispetto al quarto trimestre 2008 e del 6,9% rispetto al primo trimestre 2008. Come dire, il calo peggiore da quasi quarant’anni ed il quarto consecutivo. Il che conferma l’imponenza e la gravità della recessione e si accompagna ad un altro dato congiunturale non meno preoccupante: il disavanzo pubblico di Berlino si attesterebbe nell’anno in corso attorno agli 80 miliardi di euro, altra cifra record, mentre il rapporto deficit-Pil (pilastro dei parametri di Maastricht) viaggia verso il 4% per l’anno in corso e potrebbe arrivare al 6% nel 2010. Per meglio comprendere la portata del disastro tedesco, basta pensare che la crisi economica in corso potrebbe costare fino a 90 miliardi, più del doppio di quanto venne ad ammontare la bolletta per la riunificazione delle due Germanie. Ma attenzione a non sottovalutare questa locomotiva che va perdendo potenza e spinta, che sbuffa e mostra il bisogno urgente di una radicale manutenzione, né a liquidare il dibattito che lacera il mondo politico germanico fra i fautori dei tagli fiscali e quelli del risanamento dei conti pubblici come solamente funzionale alle elezioni di settembre. Perché la crisi della Germania significa la crisi di un terzo del Pil della zona euro dell’Unione europea, i cui conti, come ben sappiamo, sono tutt’altro che rosei. Il malessere tedesco è identico a quello di molti altri Paesi, come la Francia (-3,2%), la Gran Bretagna (­4,1%), la Spagna (-2,9%), l’Italia, che nei primi tre mesi del 2009 ha registrato un crollo del 5,9% su base annua a fronte di un’inflazione stabile (1,2%) e della concreta speranza di una pur flebile rimonta nel secondo semestre dell’anno. In altre parole si consuma meno, si spende meno, le aziende hanno bisogno di prestiti ingenti, le banche – scottate dalla grande febbre delle insolvenze – li concedono con ostentata diffidenza. La Germania tuttavia ha un vantaggio rispetto ad altre nazioni meno fortunate: il primo è che il calo del Pil inciderà in maniera molto blanda sulla disoccupazione (1 punto in meno di Pil equivale soltanto a uno 0,25% in più di disoccupati), il secondo è che il livello di indebitamento delle famiglie e delle imprese è rimasto relativamente basso e nel settore immobiliare non vi è stata la speculazione che si è verificata ad esempio negli Stati Uniti. Ed è a questa riserva di energia che la locomotiva tedesca probabilmente attingerà per rimettersi in moto, prima o poi.
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