giovedì 9 agosto 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
​Siamo a rischio deindustrializzazione. Così afferma, perentorio, il ministro del Lavoro Elsa Fornero. Per fortuna, verrebbe da dire. Non mi si fraintenda: dopo anni, molti, in cui da più parti ci siamo sentiti dire che un Paese moderno non poteva fondare la propria economia in maniera così strutturale sul manifatturiero, e quindi sull’industria, ben venga che al termine "deindustrializzazione" ora si accompagni la parola "rischio". La perdita dell’industria non è un bene per noi: con la storia economica e la tradizione che ci contraddistingue, questa prospettiva sarebbe effettivamente un grave problema. Nel mezzo della crisi internazionale e di tante crisi locali, come quella della Fiat che valuta la chiusura di due fabbriche, o anche dell’Ilva di Taranto, può sembrare un’affermazione scontata. Ma dobbiamo ricordarci che così scontata non era, non solo all’inizio del millennio in piena "new economy" – quando per converso si bollava come "old economy" tutto ciò che non era software, Internet et similia – ma anche poco prima dell’inizio dell’attuale bufera. In verità, ancora oggi alcuni, per fortuna in numero di gran lunga inferiore al passato, sostengono la necessità di ridurre fortemente il secondario, l’industria appunto, per privilegiare il terziario. La presa di posizione del ministro sottolinea, forse, un’inversione di tendenza: il venir meno dell’industria è considerato, per il nostro Paese, un fattore negativo. Non solo per la perdita di posti di lavoro, preoccupazione che giustamente muove Fornero anche per le 141 vertenze aperte presso il suo ministero, ma per le prospettive stesse del Paese. Siamo, e lo siamo sempre stati, in ciò adeguatamente riconosciuti dal mondo intero, dei manifattori: in questo abbiamo competenze diffuse e, in tanti campi, eccelse. Guai perderle per inseguire chimere. In tempi di Olimpiadi sarebbe come se un centometrista di successo si mettesse a gareggiare nella maratona o, ancora peggio, nel fioretto. Salutato questo possibile positivo cambio di passo occorre però avanzare una precisazione. Venti anni fa al prefisso "de" seguiva un altro termine, e si avviava l’era delle de-localizzazioni. I motivi erano diversi, ma l’esito uguale. Lì la ricerca di minori costi produttivi in Paesi allora emergenti, qui la difficoltà a sopravvivere. Ma le conseguenze erano potenzialmente analoghe: minori posti di lavoro e la perdita di competenze manuali. Come poi sia andata a finire è ormai noto. Alcune di quelle imprese sono tornate a operare sul territorio nazionale perché con i minori costi sostenuti all’estero la qualità non era più competitiva, altre così facendo hanno conosciuto nuovi mercati e quindi hanno allargato il proprio campo d’azione internazionalizzandosi e sperimentando una modalità operativa rivelatasi in seguito, con la crisi del mercato interno, particolarmente utile. Altre ancora, infine, hanno cessato l’attività, sono fallite, sono state vendute al miglior offerente perché la delocalizzazione era una mossa preagonica, tattica e non strategica. Credo si possa avanzare un parallelismo tra i due processi: anche nel caso del rischio di deindustrializzazione la differenza, alla fine, la farà il comportamento della singola azienda, un misto di valori e competenze del suo gruppo dirigente. Alcuni si arrenderanno, altri rilanceranno scoprendo nuove opportunità come sempre accade in questi frangenti. In Cadore per secoli si visse della lavorazione del legno e dei metalli: l’industrializzazione di fine Ottocento trasferì queste attività nelle città, molte aziende chiusero non senza problemi per tanti, ma nacque l’ancora oggi operativo settore gelatiero che conquistò l’intera Europa. Queste aziende vanno però aiutate: chi lancia l’allarme incendio deve fare prevenzione e, contemporaneamente, mettere in campo un agguerrito corpo di vigili del fuoco. L’Ikea che decide di non aprire un nuovo punto vendita per le lungaggini burocratiche, la Nestlè che negli stabilimenti Perugina si vede respingere la proposta di ridurre in diverse forme il costo del lavoro di chi il posto ce l’ha già, favorendo la creazione di nuove opportunità per i giovani, e altri casi dello stesso tenore, sono casi emblematici. È un problema innanzitutto di cultura, di mentalità da costruire. E su questo, oltre che su specifici interventi a favore dell’azione delle imprese, da fare c’è veramente molto.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: