martedì 9 aprile 2013
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La voce del Papa torna e ritorna sulla parola «misericordia», sulla misericordia immensa di Dio. (Già all’alba del giorno dopo l’elezione, quando scompigliando sicurezza e cerimoniale era andato a pregare a Santa Maria Maggiore, se ne era uscito raccomandando ai confessori della Basilica: «Siate misericordiosi»). E domenica in San Giovanni in Laterano è tornato su questa parola; aggiungendone di nuovo un’altra, «pazienza». Quella di Dio, ha detto è una «misericordia paziente». È, dunque, l’infinita attesa di un Dio che spera di riabbracciare ogni uomo. «La parabola del figliol prodigo mi dà sempre una grande speranza», ha detto il Papa: e sembra, a chi lo ascolta, l’asse portante di questo inizio di pontificato.Viene in mente un breve intervento nei lavori del Sinodo sulla nuova evangelizzazione, nel 2012, pronunciato dal cardinale Dziwisz, arcivescovo di Cracovia ed ex segretario di Giovanni Paolo II. L’annuncio della misericordia di Dio, aveva detto Dziwisz , «sembra quello che più tocca il cuore dell’uomo di oggi, chiuso in se stesso e in un’apparente autosufficienza, eppure in cerca di senso della vita e di motivi di speranza». Analisi evidentemente condivisa da Papa Bergoglio; certezza che il pastore argentino si è costruito in anni in confessionale, quel lavoro silenzioso e oscuro che ogni giorno costruisce i cristiani e la Chiesa.Una misericordia paziente. Un attendere nella speranza, contro ogni ragionevolezza, con un cuore grande, neppure sfiorato dal rancore e nemmeno interessato alla povera, limitata giustizia degli uomini. Qualcosa di molto più ampio, anzi di infinito, che fatichiamo a figurarci; una "giustizia" che, anziché punire, fa rinascere.E la pazienza? Tra noi, la pazienza non sembra neanche più una virtù. Si è uomini in quanto si decide, si agisce, si fa – senza attese che paiono solo indugio e debolezza. E Dio, invece, che resta, fedele, immobile, e spera; che è lì se un uomo torna, e lo aspetta. La straordinaria pazienza di Dio di cui Francesco continua a parlarci sta affascinando gente da tempo lontana. Gente che da quelle parole dopo anni, magari, si è sentita interpellata; quasi che quel Padre di misericordia, attraverso il Papa, si rivolgesse proprio a loro.C’è solo un’unica, minima condizione necessaria a quell’abbraccio: «Proprio nel sentire il mio peccato, nel guardare il mio peccato io posso vedere e incontrare la misericordia di Dio», ha detto Francesco. E per spiegarlo ha citato Pietro, che per tre volte aveva rinnegato, «e quando tocca il fondo incontra lo sguardo di Gesù». Ha citato il figliol prodigo, che pure aveva sperperato tutto di sé, aveva, ha ripetuto Francesco, «toccato il fondo». La sola condizione per incontrare la misericordia di Dio è nel riconoscersi peccatori, dunque; forse perché fino a quel momento è la propria vanagloria, o il credersi "a posto", che annebbia lo sguardo. Francesco ha ricordato San Bernardo, che si chiedeva su quali propri meriti poteva contare e rispondeva, con fierezza: «Mio merito è la misericordia di Dio». L’immenso abbraccio di cui il Papa insistentemente ci parla è per ognuno, e anche per chi si crede il peggiore. Domanda soltanto uno sguardo, per un momento, sincero. Un rinunciare alla pretesa di essere autosufficienti e padroni di sé; o anche, nei cristiani "abituati", l’umiltà di vedersi davvero e riconoscersi non migliori degli altri, e peccatori. Non è un passaggio da poco, questo, né per i lontani né per i credenti. Ma è la porta: «Nel guardare il mio peccato io posso incontrare la misericordia di Dio». Lo ha detto Francesco ai romani, che da subito gli hanno voluto bene – come avendo in lui riconosciuto qualcuno che aspettavano. Possibile? Ma «cor ad cor loquitur», il cuore di Dio parla al cuore dell’uomo, come concludeva Dziwisz quel suo intervento al Sinodo sulla misericordia. (Era felice, il giorno dopo il Conclave, l’ex segretario di Wojtyla: «Anche questo Papa – confidava a un giornale lombardo – spalancherà porte»).
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