domenica 20 marzo 2011
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Una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) potrebbe destare perplessità: come disciplinare con la mano rigida del diritto questioni delicate quali la relazione paziente-medico? Come entrare nella sfera più intima, là dove viviamo l’angoscia di morte? Tuttavia una legge appare, oggi in Italia, necessaria e urgente, sia per il rischio di una deriva eutanasica della giurisprudenza che per il proliferare di testamenti biologici in tanti Comuni.Il disegno di legge in discussione alla Camera, anche se in alcuni punti perfettibile, appare in questa luce un argine opportuno, condivisibile per almeno due motivi: il carattere non vincolante, e il no alla sospensione di idratazione e alimentazione artificiale.Ricordiamo come sul carattere «non assolutamente vincolante» delle Dat si sia espresso all’unanimità il Comitato nazionale per la bioetica nel noto parere del 2003, e come in questo senso si muova – ancor prima – la Convenzione di Oviedo del 1996, che all’articolo 9 parla di «desideri precedentemente espressi» che devono essere «tenuti in considerazione», non eseguiti in ogni caso. In gioco vi è il senso stesso del rapporto paziente­medico: un rapporto tra alleati, all’insegna della fiducia, o un rapporto tra estranei, all’insegna della diffidenza, dell’esigenza di difendersi, vincolandosi a un testo?Quale relazione di cura se i medici si trasformassero in asettici esecutori di volontà anticipate? All’estensione nel tempo di un’autonomia del paziente senza contraddittori corrisponderebbe un affievolirsi della responsabilità umana e professionale del medico. Il senso etico delle Dat – continuare un dialogo anche in casi di incapacità – richiede che la voce del medico continui a parlare e che quella del paziente sia ascoltata per ciò che è: una voce che viene da una situazione altra.Sulla sospensione di idratazione e alimentazione artificiale va posta innanzitutto una domanda: si tratta o no di eutanasia? Per eutanasia, infatti, non intendiamo solo l’azione, ma anche – come indica la Dichiarazione sull’eutanasia della Congregazione per la dottrina della fede del 1980 – l’omissione che «di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare il dolore». Quando si tratta di sospendere cure necessarie alla vita, come l’idratazione e l’alimentazione artificiale, non si può quindi cadere nel tranello di un’impropria distinzione tra eutanasia e 'lasciar morire', quasi che quest’ultimo sia un opportuno e naturale 'lasciare andare'. Certo, anche queste cure possono in casi limite risultare inefficaci al punto da configurarsi come accanimento clinico: ma si tratta di casi limite, appunto, cioè di sospensioni da valutare sempre e solo "in situazione".La paura della sofferenza, di una morte prigioniera delle macchine, non deve offuscare le coscienze, creare confusione e cedimenti. Il no all’accanimento clinico e il no all’eutanasia omissiva sono difesi ambedue nel disegno di legge: il primo legittima il rifiuto di cure sproporzionate alla situazione che il paziente vive; il secondo vieta la rinuncia a cure proporzionate che sostengono la vita. Nei casi di pazienti in stato vegetativo o affetti da altre patologie che compromettono la coscienza, a essere giudicata insopportabile non è la cura ma la vita: la rinuncia alle cure coincide con la rinuncia alla vita ed è finalizzata a questa. A essere intaccato in questo caso non è solo il principio dell’indisponibilità della vita, messo in crisi dalla libertà del soggetto, ma anche il principio dell’inviolabilità della vita, chiamato in causa dalla responsabilità di chi pone in atto la rinuncia. Si chiede al medico di attuare nel modo più indolore possibile un intervento attivo/omissivo, nella consapevolezza che ciò causerà sicuramente la morte, e per causarla. Se tale richiesta venisse legittimata l’eutanasia entrerebbe nel nostro ordinamento, nelle nostre vite, nelle nostre relazioni – terapeutiche e non –, per la via meno evidente, la più subdola: quella dell’omissione.Il progetto di legge in discussione alla Camera pone un argine prezioso perché difende princìpi fondamentali per l’etica e per il diritto, come l’indisponibilità e l’inviolabilità della vita umana: princìpi a cui non possiamo rinunciare né come credenti né come cittadini di uno stato laico, poiché difendono la vulnerabilità che segna ogni vita umana.
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