venerdì 21 agosto 2009
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Hanno votato. E già questa è una notizia, una bella notizia. Nonostante le minacce, le intimidazioni, le violenze e gli attacchi terroristici che sono proseguiti anche nella giornata elettorale, milioni di afghani si sono recati alle urne. Alla fine il loro desiderio di pace, sicurezza e benessere si è rivelato più forte della paura e del terrore. E quelle mani tinteggiate d’inchiostro violaceo, il marchio di chi ha detta la sua nelle urne, rappresentano una barriera inviolabile che si è eretta contro le mani lorde di sangue degli estremisti taleban. Non ci sono ancora dati certi sull’affluenza che la Commissione elettorale nazionale, ancor prima che chiudessero i seggi, stimava attorno al 50%. Ben inferiore dunque al 70% di cinque anni fa, al primo storico appuntamento dell’Afghanistan con la democrazia. Ma comunque è di molto superiore a quel 30% che un esperto della realtà afghana come Ahmed Rashid aveva fissato nei giorni scorsi come livello minimo di credibilità per queste elezioni presidenziali. Ci vorrà molto tempo prima di conoscere i risultati. Per ora l’unico dato ufficiale riguarda il numero delle persone uccise nel corso della giornata elettorale: 26, meno di quanto si temeva alla vigilia. Anche se dire che « le condizioni di sicurezza in cui si è tenuto il voto sono state un successo», come ha affermato il segretario generale della Nato, Anders Rasmussen, è qualcosa al limite del surreale. L’Afghanistan non ha mancato l’appuntamento elettorale e questa, come dicevamo, è una buona notizia. Ma la soddisfazione si ferma qui, anche perché rischia di essere l’unica buona notizia. Chiusi i seggi, sventata la minaccia di un bagno di sangue ad opera dei taleban, inizia adesso la conta dei voti su cui pesa l’ombra di diffuse irregolarità e massicci brogli. Già ieri ci sono state polemiche sull’inchiostro nient’affatto indelebile utilizzato in alcuni seggi. C’è chi paventa una « sindrome iraniana » in Afghanistan dove un risultato elettorale contestato avrebbe effetti altamente destabilizzanti. Se infatti il presidente uscente Karzai venisse proclamato vincitore dopo questo primo turno elettorale c’è il rischio di una sollevazione degli altri candidati, a cominciare dal leader dell’opposizione ed ex ministro degli esteri Abdullah Abdullah che rappresenta lo sfidante più agguerrito, già comandante dell’Alleanza del Nord, amico dell’eroe di guerra Massud e punto di riferimento della popolazione tagika. Karzai può contare sul sostegno dell’etnia pashtun, maggioritaria nel Paese ma sotto il 50%. Per questo ha intrecciato alleanze con i signori della guerra di altre etnie, in particolare con il generale uzbeko Dostum. Il duello tra Karzai e Abdullah è percepito dagli afghani come la riedizione delle storiche rivalità che da sempre oppongono i tagiki del nord ai pashtun del sud. Se dovesse degenerare in scontro aperto (Abdullah ha centrato tutta la sua campagna elettorale sulle accuse di corruzione al presidente uscente) l’Afghanistan scivolerebbe nel caos più totale. E questo è lo scenario peggiore. Ma anche nel caso che nessun candidato ottenga al primo turno il 50% più uno dei voti si potrebbe riaprire un periodo di grande instabilità. Da qui a ottobre, quando si dovrà tenere il ballottaggio, i taleban moltiplicherebbero le loro azioni terroristiche. C’è infine il terzo scenario, quello che vede tutti i contendenti accettare tranquillamente l’esito ufficiale del voto. È quanto si augura la comunità internazionale. Se questo si realizzerà allora, ma solo allora, potremo brindare al « successo del voto afghano» . La competizione tra Karzai e Abdullah è vissuta anche come la storica rivalità tra tagiki del Nord e pashtun del Sud. Se il duello dovesse degenerare in uno scontro aperto, il Paese finirebbe per scivolare nel caos totale
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