giovedì 10 ottobre 2013
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Nell’ultima sala del piccolo e toccante museo che Longarone ha dedicato alla memoria del disastro del Vajont, sull’ultimo muro prima dell’uscita, un cartello ricorda gli altri disastri che sono seguiti nei decenni successivi. Elenco terribile di lutti e rovine. Purtroppo ancora non aggiornato. Davvero «il Vajont non ha insegnato niente», come ci diceva due giorni fa con amarezza il giovane sindaco del paese veneto, Roberto Pedrin. Il 9 ottobre 1963 l’enorme frana del monte Toc precipitò nel lago artificiale provocando la gigantesca ondata che distrusse interi paesi. Quasi duemila persone, duemila vite, duemila storie spazzate via. «Non fu una tragica, inevitabile fatalità, ma la drammatica conseguenza di precise colpe umane, che vanno denunciate e di cui non possono sottacersi le responsabilità», ha scritto ieri, con la sincerità che lo contraddistingue, il presidente Napolitano, ammonendo come sia «dovere fondamentale delle istituzioni pubbliche operare per la tutela, la cura e la valorizzazione del territorio». Giusto, allora come ora.In questo ottobre 2013, cinquanta anni dopo, contiamo morti e dispersi in Toscana e Puglia per l’ultima ondata di maltempo. "Bombe d’acqua" le chiamano i meteorologi. Termine bellico, e di guerra si tratta, almeno a vedere gli effetti. Più di quattromila morti in cinquanta anni. Già, proprio l’elenco del museo di Longarone. Allora come ora? Le parole di del capo della Protezione civile, Franco Gabrielli sono più che un’allarmante conferma. «Questo Paese sta letteralmente cadendo a pezzi: o interveniamo in maniera strutturale o andremo sempre a fare una sorta di elenco di disgrazie e di morti». Di nuovo quell’elenco, incompleto, purtroppo. E ancora una volta la sottovalutazione, l’approssimazione, la colpevole sciatteria nella cura del territorio che è poi la cura della nostra vita. Firenze, Polesine, Soverato, Giampilieri nomi che ogni tanto ci tornano alla memoria (e la memoria è fondamentale) ma che non riescono a far mettere in campo una vera politica di salvaguardia.Servirebbero 40 miliardi, quelli che da spendere "prima", per non continuare a doverne tirare fuori tanti – ben 52 sinora – per riparare i danni "dopo". E non osiamo stimare il valore di quel terribile elenco di morti.... Il problema, come si queste colonne abbiamo scritto più volte, è che anche quando i soldi si trovano, alla fine non li si riesce a spendere bene per lentezze e inefficienze burocratiche aggravate dal capestro, che tale appare sempre più, dei vincoli del "patto di stabilità", che paralizza Regioni e Comuni nell’impiego di quanto ottenuto. Assurde regole che impediscono di salvare tante vite. Come quelle portare via dalle "bombe d’acqua" nel Grossetano e a Ginosa, luoghi più volte colpiti in modo grave.Si spendano, dunque, e si discuta con la Ue per far capire la necessità di modificare certi assurdi "ostacoli" all’investimento in prevenzione. Ma, soprattutto, si faccia finalmente una vera gestione del territorio. Senza tentennamenti. Contro ogni colpevole interesse, anche a costo di provvedimenti impopolari: lotta all’abusivismo edilizio, ai disboscamenti, pulizia dei corsi d’acqua, messa in sicurezza e, se necessario, delocalizzazione di abitazioni e aziende dalle aree a rischio. Si agisca con la severità necessaria. Qui è in gioco la vita, non solo soldi.«Diga funesta, per negligenza e sete d’oro altrui persi la vita, che insepolta resta», si legge su una lapide vicina alla diga del Vajont. Parole terribili, «negligenza» e «sete d’oro», allora come oggi. Le case costruite nelle fiumare, l’escavazione selvaggia dei letti dei fiumi, i soldi che alla fine servono sempre per altro. «Nessun interesse, nessuna convenienza, nessuna scorciatoia può concedersi di incidere sulla pelle viva di una popolazione», ha scandito ieri il presidente del Senato, Pietro Grasso rappresentando lo Stato al cinquantesimo anniversario del Vajont. Davvero è ora di dire tutti, a cominciare da chi ha più responsabilità, un chiaro «Basta!». Ma con fatti concreti.Non vogliamo più leggere parole come quelle di questa breve poesia anonima scritta cinquanta anni fa. «Il mio papà era lontano a lavorare, ma a Natale sarebbe tornato e io l’aspettavo. È tornato prima di Natale ma io non ho potuto aspettarlo: siamo andati via prima di Natale, io, la mamma e la nonna. Non è stata colpa nostra, papà». No, non è colpa vostra. Le responsabilità sono altre e note. Si ponga buon rimedio, con rapidità ed efficacia. Per la piccola vittima di allora, per le vittime di oggi. Perché non ce ne devono essere più.
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