sabato 20 giugno 2009
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Visto nel suo complesso, leggendo i saldi finali, il bilancio che l’Istat ha fornito ieri delle forze lavoro è certo meno drammatico di quanto si potesse prevedere. Settantamila occupati in meno da dicembre 2008 a oggi, 204mila posti di lavoro "scomparsi" in un anno sono dati sì molto critici, ma che non configurano il temuto crollo. È però esaminando le cifre "lorde", i diversi insiemi, che ci si accorge di come la recessione stia colpendo in modo particolarmente duro alcune categorie e di come sia perciò necessario affinare ulteriormente gli interventi di politica economica e, probabilmente, cambiare anche alcuni atteggiamenti.La prima fotografia dell’occupazione a crisi economica ormai deflagrata restituisce infatti l’istantanea di un apparato produttivo "congelato", nel quale le macchine sono spente, i lavoratori stanno in gran parte a braccia conserte, ma sono ancora lì, nelle aziende, grazie alle massicce dosi di cassa integrazione, allargata e finanziata dall’intervento governativo. Poi – a mano a mano che si ingrandisce l’immagine – ci si accorge dei particolari che segnano la differenza. Il primo già la dice lunga: il saldo di 204mila posti in meno è in realtà la differenza tra le 222mila assunzioni in più di stranieri e la perdita di ben 426mila occupati italiani. Gli immigrati certo sopperiscono al calo demografico italiano e quindi il trend del loro inserimento nel nostro mercato del lavoro sarà una costante per lungo tempo. Non possiamo nasconderci, però, che il dato del loro crescente impiego conferma come essi accettino una serie di lavori di minore qualificazione (e con salari inferiori) rifiutati da molti di noi in settori quali i servizi alla persona, le pulizie, i trasporti, l’edilizia. Non si tratta di scatenare una concorrenza al ribasso ma essere coscienti che in tempi difficili deve aumentare la disponibilità a cogliere le occasioni d’impiego. Tutte, giacché ogni lavoro ha una propria dignità intrinseca.Il secondo particolare a risaltare è che sono i giovani le "vittime" più numerose. Mentre le regole più stringenti sui pensionamenti hanno "protetto" gli ultracinquantenni, infatti, nella fascia di età fra i 15 e i 34 anni gli occupati sono calati di ben 408mila unità e il tasso di occupazione è drammaticamente sceso al di sotto della metà, al 47,9%. D’altro canto, mentre i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato "tengono", anzi aumentano in cifra assoluta (+219mila), il conto della crisi è stato lasciato sul tavolo delle figure meno tutelate: contrattisti a termine (meno 154mila), collaboratori (–107mila), artigiani, negozianti e partite Iva (–163mila).Riaprire ancora il dibattito sulle disuguaglianze del nostro welfare e se fosse stato più opportuno creare subito un assegno unico di disoccupazione appare oggi francamente un esercizio teorico inutile. Senza il finanziamento della cassa integrazione e con la "copertura" di un più consistente sussidio di disoccupazione, le imprese avrebbero licenziato un numero assai maggiore di dipendenti. Ci saremmo trovati a dover fronteggiare una massa di uomini e donne di mezza età, per la gran parte con figli a carico, senza più lavoro e con prospettive di reingresso assai ridotte. Non per questo possiamo assistere inerti all’ennesimo colpo che fiacca un’intera generazione di 20-30enni. È pur vero che le forme contrattuali flessibili saranno le prime ad essere riattivate non appena la ripresa farà capolino, ma fino ad allora andrebbe assicurato, coinvolgendo le Regioni, un contributo straordinario all’intera platea di coloro che oggi ne sono privi, come si è fatto recentemente per commercianti e artigiani colpiti dal terremoto.Gli ammortizzatori sociali sono solo un aspetto della strategia anti-crisi. Occorre soprattutto "ricreare" il lavoro. Essenziali dunque le riforme strutturali più volte richiamate anche dagli industriali, ma è non meno necessario l’impegno degli stessi imprenditori a sostenere redditi e domanda interna attraverso adeguati livelli salariali. I margini ci sono se è vero, come calcolava l’altro ieri Mediobanca, che negli ultimi 10 anni gli stipendi sono aumentati meno della metà rispetto all’incremento della produttività. Il rinnovo dei contratti, con le nuove regole e le relative agevolazioni fiscali, sono una prima occasione da cogliere.
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