Io, medico, che cura, accompagna e non vuole né vorrà uccidere
venerdì 3 febbraio 2017

Caro direttore,
nelle ultime settimane “Avvenire” sta dando spazio al dibattito sul fine vita, in merito alla discussione della legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, le Dat. Sto seguendo il dibattito con attenzione e trepidazione. Sì, trepidazione, perché per chi lavora nell’ambito sanitario questa legge è tanto attesa. Certo, non credo che una legge possa toglierci tutti i problemi di coscienza nei singoli casi che incontriamo tutti i giorni, ma almeno ci può indirizzare e sostenere in certe decisioni difficili. Sono felice che ci siano politici ed esperti in legge che si stanno adoperando affinché non vengano approvati emendamenti che possano in qualche modo introdurre l’eutanasia passiva nel nostro Paese; li ringrazio per il loro lavoro perché non vorrei mai dovermi trovare nella situazione di dovere, per legge, accogliere la richiesta di un suicidio assistito. Tuttavia il termine “fine vita” è molto ampio e chi vuole affrontarlo deve, sì, conoscere la bioetica e le più aggiornate nozioni scientifiche, ma anche spendere del tempo accanto ai tanti malati nei reparti di degenza, nelle case di riposo, nell’assistenza domiciliare, e ascoltarli. Mi riferisco all’ultimo intervento pubblicato sabato 28 gennaio, di Raffaele Calabrò. Faccio una piccola premessa. Ho iniziato il mio lavoro di medico circa 10 anni fa, con un’esperienza di due anni in Africa. Lì ho vissuto il profondo senso di frustrazione di fronte alle morti per l’ingiustizia sociale; quante vite si sarebbero potute salvare se solo avessero avuto accesso alle cure di un Paese più avanzato, ne ricordo ancora i volti. Sono poi rientrata in Italia, per svolgere il mio lavoro di ogni giorno: geriatra ospedaliero. Le assicuro che la frustrazione che ho cominciato a vivere qui, dove tutte le cure sono disponibili, è stata un’altra, totalmente opposta: l’accanimento terapeutico, la perdita di dignità nel fine vita, una medicina che deve essere sempre vittoriosa, e quindi deve fare tutto il possibile fino alla fine (forse perché non vogliamo sentirci “responsabili” di una morte), senza ascoltare il malato, che, vi assicuro, “parla” anche negli stadi terminali di una demenza, se solo lo vogliamo ascoltare. Per fortuna negli ultimi anni le cure palliative stanno assumendo sempre più importanza e molte associazioni mediche si stanno muovendo con documenti e linee di indirizzo per aiutarci a scegliere il percorso clinico migliore nelle tante forme di terminalità che stanno aumentando in numero (pensiamo alle demenze in fase terminale, le insufficienze cardiache o respiratorie in fase terminale, etc).
Per questo non posso accettare che si metta in un unico calderone “eutanasia” e “cure di fine vita”. Facendo questo si cade nell’ideologia. Non si può dire che «idratazione e alimentazione» sono «forme di sostegno vitale necessarie e fisiologicamente indirizzate al nutrimento e ad alleviare le sofferenze del soggetto in stato terminale». Bisogna essere precisi, e dire che è diversa la situazione di un coma vegetativo o di un ictus in fase stabilizzata rispetto ad una condizione di terminalità in una patologia cronica degenerativa. Altrimenti si crea confusione anche nei familiari dei malati, che leggono questi slogan e poi si trovano a dover affrontare decisioni difficili con tanti scrupoli. Un malato terminale non va certo abbandonato, ma l’alimentazione artificiale può essere futile o addirittura dannosa in fase terminale. Allo stesso modo l’idratazione è addirittura dimostrato che peggiora i sintomi negli ultimi giorni di vita. Da cristiana, nel mio lavoro, mi sento in obbligo di aiutare le persone in fase terminale ad andare incontro alla morte con dignità, con la libertà di dire anche di no a interventi medici per loro sproporzionati, non perché vogliano suicidarsi, ma perché hanno già portato la loro croce a lungo e con dignità e sanno capire quando è giunto per loro il momento in cui vengono chiamati a lasciare questa vita. In una società dove non si sa più affrontare la morte (le assicuro che sempre più trovo familiari di anziani con più di 90 anni in difficoltà ad accettare la morte del familiare, come se non avessero mai pensato che prima o poi questa vita ha una fine), dobbiamo abbandonare l’idea di una medicina che può tutto e salva tutti a ogni costo e passare a una medicina che sappia accompagnare, con discrezione e rispetto, i malati in fase terminale. Abbiamo bisogno di una legge che dica di no all’eutanasia da una parte, ma che permetta anche di dare dignità alle persone nelle situazioni di terminalità. Con l’occasione, la ringrazio per “Avvenire”, dove sono sempre sicura di trovare articoli seri, frutto di un giornalismo responsabile.
Cordiali saluti, Barbara D. medico

Fino a quando ci saranno medici come lei, cara dottoressa, capaci di agire in scienza e (ben formata) coscienza, continuerò ad avere fiducia. La stessa fiducia che, da anni, spinge noi e tanti altri – credenti e no, ma uniti dai valori cardine di uno stesso umanesimo – a batterci per affermare e difendere il bene prezioso dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente (con accanto i suoi familiari) e a partire da questo bene concepire una legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento. Già, le famose “Dat” negli anni scorsi arrivate a un passo appena dall’approvazione parlamentare, e poi trascinate e bloccate nel pantano di dispute ideologiche, astratte e non poche volte presuntuose (come possono esserlo certe opzioni apparentemente libertarie, ma in sé nichiliste, paradossalmente anti-scientifiche e addirittura disumanizzanti). Una fiducia che alimenta e sostiene la convinzione morale e la civile perseveranza necessarie per fronteggiare i propagandisti dell’eutanasia, cioè della morte “a comando” irrogata dallo Stato, in qualunque forma proposta.
Le cose che lei, gentile amica, scrive in modo così vibrante e coinvolgente sono vere, giuste, concrete. Lo dico anche per esperienza diretta: familiare, straziante eppure, infine, illuminata dalla ragione e dalla consapevolezza dell’umano limite (vaccino contro la tentazione dell’accanimento terapeutico) e consolata dalla fede (medicina davvero, e non anestetico, per l’anima e il cuore). Vorrei poter avere un’identica fiducia nel senso di giustizia e di verità, e dunque nella concreta lungimiranza dei nostri legislatori... So che ce ne sono di lucidi e ben intenzionati, capaci di ascoltare anche appelli saggi e indicazioni utili come quelli proposti ieri dai prèsidi di Medicina di quattro grandi Università romane (La Sapienza, Cattolica, Tor Vergata e Campus). Vedo progressi nel lavorìo in corso per dare equilibrio alla proposta di legge arrivata all’esame della Camera e, purtroppo, ancora rischiosamente aperta a infausti esiti eutanasici. Ma continuo a registrare con preoccupazione pure i guasti minacciati dalla superficialità (o dalla malizia) di alcuni ipotizzati passaggi normativi. Spero, perciò, con tutte le forze che lei, dottoressa, abbia ragione. Mi auguro, cioè, e auguro ai miei concittadini che infine si delinei, come anche lei chiede, un sistema di regole in grado di «indirizzare e sostenere in certe decisioni difficili» tutto il personale sanitario, evitando che in Italia si legittimi e incentivi sia un mortale abbandono sia uno sterile e dannoso accanimento terapeutico nei confronti dei malati terminali. Rispetto la sua richiesta di (parziale) riserbo. Grazie per l’apprezzamento per il nostro lavoro e, soprattutto, per la sua testimonianza professionale e umana di donna, di cristiana e di medico.

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