venerdì 20 dicembre 2013
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I presupposti, purtroppo, ci sono tutti. Così come sono inequivocabili i segnali che lancia la crisi nella Repubblica Centrafricana. I morti si contano a migliaia e ieri Amnesty International ha solo confermato quello che da giorni missionari e Ong denunciavano: è in atto una guerra nella guerra. La questione religiosa sta diventando sempre più una variabile impazzita in una crisi che dura dal marzo scorso. Amnesty ha confermato la morte di un migliaio di cristiani nelle epurazioni compiute dalle milizie fondamentaliste che genericamente si identificano nella coalizione Seleka. A loro volta le milizie cristiane, le cosiddette “anti-Balaka” hanno risposto ai raid nei villaggi con altrettanta violenza. La situazione è sempre più fuori controllo e l’anarchia è totale. Ieri nella capitale Bangui è arrivata l’ambasciatrice Usa all’Onu, Samantha Power, che ha paventato «lo spettro del genocidio in Ruanda» del 1994. Alle autorità ha rimarcato la «priorità di fermare un conflitto che è sempre più interreligioso». Ma il primo problema è proprio quello degli interlocutori. Il presidente golpista Michel Djotodia ormai è tenuto in sella solo dalle truppe francesi: 1.600 parà, addestrati nelle crisi africane come quella del Mali, che possono contenere ma non certo fermare gli scontri. Parigi, storcendo il naso, ha subito deciso l’intervento per ragioni pratiche, prima ancora che umanitarie. Il controllo della regione è fondamentale, soprattutto per tutelare in Niger gli interessi della Francia nell’industria di estrazione dell’uranio. Un quadrante dove le pulsioni jihadiste sono sempre più forti e dove si sta giocando una partita molto importante dal punto di vista degli equilibri geopolitici. Nei giorni scorsi Berlino, Bruxelles, Varsavia e la stessa Londra, si sono dette «disponibili» a valutare l’invio di «rinforzi ai francesi», che attualmente già operano con le forze della missione dell’Unione Africana. E qui il parallelo con il Ruanda, sollevato dall’inviata statunitense, si fa ancora più calzante. Il genocidio, che risale a vent’anni fa, si consumò nel silenzio della comunità internazionale. E quando venne deciso l’intervento, il massacro si era già consumato con almeno 800mila tutsi e hutu moderati fatti a pezzi dalla violenza degli estremisti. Ora nella bozza delle conclusioni del vertice europeo, che fino ad oggi raccoglie a Bruxelles i 28, si fa cenno all’intervento «cruciale della Francia», e «si conferma la volontà dell’Unione Europea di esaminare l’uso di strumenti pertinenti per contribuire agli sforzi in corso per la stabilizzazione del Paese». In pratica significa che non ci sarà comunque un’azione comune: nel nome di quella forza di difesa e azione Ue per ora inesistente. Da Bruxelles è probabile che arrivi, invece, soltanto la disponibilità di un gruppo di Paesi Ue all’invio di aiuti logistici e forse di truppe. Con modi e tempi ancora tutti da stabilire.Con gli Stati Uniti fuorigioco (le leggi americane vietano interventi armati a favore di regimi golpisti), un’Europa sorda alle richieste di appoggio avanzate dal ministro degli Esteri francese Fabius e le Nazioni Unite che hanno di fatto delegato all’Unione Africana la presenza sul terreno, la situazione sembra a dir poco cristallizzata. E questo a fronte di decine di migliaia di civili in fuga dalle loro stesse case, di massacri che si perpetuano e di sacerdoti che non sanno più come sfamare le migliaia di persone che si sono rifugiate nelle loro chiese. Il Ruanda dei massacri, dell’indifferenza occidentale annegata in una laguna di sangue, non sembra purtroppo così lontano.
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