martedì 14 aprile 2009
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La Messa è finita e, prima di andare in pace, si ascoltano gli avvisi. Suc­cede in tutte le parrocchie d’Italia e suc­cede anche nelle tendopoli del terre­moto abruzzese. La singolarità della scena aquilana risiede nel fatto che, do­menica mattina, a prendere la parola al termine della celebrazione eucaristica presieduta dal segretario generale del­la Cei non è stato lo stesso monsignor Crociata e neppure un sacerdote di Pi­le, l’area industriale su cui sorge la ten­dopoli Sandro Pertini, bensì un fun­zionario della Protezione civile. Nel momento in cui ogni parroco avrebbe ricordato a che ora si ritroveranno i ca­techisti o quando si terranno le prove della corale, l’ingegnere di Palazzo Chi­gi ha spiegato perché lo sciame sismi­co fa ancora paura, che ogni abitazio­ne del capoluogo va abbandonata, co­me avverranno le verifiche sulla stati­ca degli edifici e che non tutte le strut­ture dovranno essere abbattute... La stessa scena si ripeterà in tutte le tendopoli. Per la Protezione civile que­sti avvisi al termine della Messa costi­tuiscono uno strumento di comunica­zione imprescindibile: i bollettini car­tacei non basterebbero a raggiungere tutti; in un campo di sfollati in cui ri­caricare il cellulare è un problema non ci si può certo affidare alla tv o al web. Si capisce perché, allora, una tenda venga immancabilmente adibita a sa­la della comunità: nessun collaterali­smo, nessuna confusione di ruoli, è il segno di una tensione comune che sca­turisce da una comunanza di progetto. In altre parole, quando si tratta di sal­vare una comunità, fatta di vite e di re­lazioni, di benessere materiale e spiri­tuale, Stato e Chiesa si scrollano di dos­so le zavorre di discussioni infinite e si ritrovano al punto di partenza, all’es­senziale della loro missione: il bene del­la Res Publica, che è anche il bene di ciascun terremotato, e l’attenzione al­la persona. Il rispetto per i ruoli, che non è in di­scussione, significa anche riconosci­mento delle specifiche potenzialità. Monsignor Crociata ha sottolineato che la Chiesa italiana è 'presente' all’A­quila. Lo è con i suoi pastori, i quali, fin dalle ore del batticuore e del groppo in gola, hanno parlato di speranza, han­no invitato a rimboccarsi le maniche, hanno predicato la vicinanza alle po­polazioni colpite dal sisma e l’hanno praticata, fino a dormire in una tenda, come tutti. La Chiesa è presente in queste terre prostrate con i suoi preti, religiosi e re­ligiose, che fanno argine alla dispera­zione, incontrando gli spauriti, confes­sando i dubbiosi, consolando famiglie monche e inconsolabili. Hanno paura anche loro, poiché sono uomini e don­ne, ma parlano di futuro. La Chiesa è presente con la Caritas, che lancia og­gi i suoi gemellaggi e intende accom­pagnare per lungo tempo la ricostru­zione morale e materiale. E con asso­ciazioni e movimenti che si rendono presenti in tante, concrete modalità. Quella della Chiesa è una vicinanza ca­leidoscopica, che porta a vedere il pro­blema, e ad affrontarlo, sotto le luci più diverse. Non meramente assistenziali, né solo spirituali: vestiti e scatolette, psicologi e animatori, ma anche nuo­ve scuole, centri di comunità e chiese, le tante chiese dell’Aquilano da restau­rare o da ricostruire. Le vie della condivisione sono infinite. Una delle più importanti passa per questa collaborazione silente, sponta­nea, naturale perché necessaria, con la Protezione civile e i corpi dello Stato. Un funzionario che legge un avviso al­la fine della Messa segnala uno stile di governo delle emergenze che non si a­limenta di interviste o dibattiti televi­sivi, accantona con un sorriso ogni a­stio ideologico e guarda in una dire­zione sola: salvare l’uomo e la sua ci­viltà. Quando il progetto è questo, la Chiesa c’è.
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