Io malato di Sla come un paria ma ora potrò farmi suicidare
venerdì 27 settembre 2019

Non mi muovo. Dipendo in tutto e per tutto da qualcuno. La mia patologia si chiama Sla, sclerosi laterale amiotrofica, per la quale non c’è cura. Ne soffro da quasi tre anni, e non si sa quanto ancora andrò avanti. Ci sono giorni in cui mi fa male tutto, che in nessuna posizione trovo sollievo, e sono sempre di più.

A occhio e croce, dunque, sono tra i 'fortunati' ai quali la Consulta ha dato il via libera alla possibilità di accedere al suicidio assistito, e dunque dovrei essere tra coloro che oggi esultano perché un nuovo diritto è stato riconosciuto, il diritto a morire con dignità. Il problema è che proprio non ci riesco. Perché il mio problema vero non è di morire con dignità, anche perché questo diritto mi è pienamente assicurato da quanto già esiste: quando sarà il momento potrò ricorrere alle cure palliative, e andarmene in sedazione profonda, dopo aver rifiutato ogni accanimento terapeutico.

Il mio problema, e quello di chi si trova nelle mie condizioni, è prima di tutto di poter vivere con dignità. Che significa che lo Stato deve assicurarmi l’assistenza di cui ho bisogno, tutti gli ausili di cui ho bisogno, tutte le cose che mi consentano una qualità del vivere degna di questo nome. Esattamente come avviene in altri Paesi europei, dove chi è nelle mie condizioni non si sente un paria. La realtà è invece del tutto diversa. Ed è fatta di fatica infinita, nostra e dei nostri cari che ci assistono e si sfiancano fino allo sfinimento fisico e mentale per supplire alle troppe, infinite mancanze dello Stato, di una burocrazia che uccide e rende un miraggio il raggiungimento del poco che ti viene riconosciuto.

È fatta dal ritrovarsi prigionieri nelle proprie case, dal non poter uscire a fare una passeggiata perché le nostre città sono percorsi a ostacoli, quando non piste da cross. Sono queste le condizioni ideali per farti passare la voglia di vivere. Per farti venire voglia che tutto finisca presto, il prima possibile, comunque. Vedersi riconosciuto il diritto a morire con dignità, al suicidio assistito, suona così un po’ come una beffa, un incoraggiamento a farti da parte, a togliere il disturbo a una società che ti considera un peso, un corpo estraneo, ingombrante, fastidioso. Una rupe Tarpea moderna, asettica e travestita di civiltà. Ma la vera civiltà è un’altra. Si arriverà mai a capirlo?

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