venerdì 20 febbraio 2009
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Finalmente sono state liberate. Dopo centodue giorni di cattività Caterina Giraudo e Maria Teresa Olivero hanno potuto lasciare Mogadiscio dove erano tenute in ostaggio. Dobbiamo ammet­terlo con franchezza: il pur comprensi­bile e legittimo silenzio stampa, richie­sto sia dalla Farnesina come dai loro pa­renti e amici, rischiava di sfociare in u­na sorta d’involontaria rassegnazione. Eravamo un po’ tutti ingrigiti nel troppo tempo esigito dall’odissea di queste due religiose, per le quali si temeva si stesse innescando una sorta di arrendevolez­za insopportabile. Insomma, non ci si poteva affrancare fa­cilmente dal pensiero che due donne del loro calibro, consacrate a Dio per la cau­sa del Regno, potessero sperimentare il sacrificio estremo soltanto perché ave­vano osato fare la scelta di stare a fian­co degli ultimi, di coloro che sono «cro­cifissi dalla storia» in una remota peri­feria africana. Lo dicevamo non per far durare il rancore nei confronti degli a­guzzini che le avevano strappate con la forza il 9 novembre scorso dalla missio­ne di El-Wak, ma per esprimere una la­mentazione che invocava la misericor­dia, quella che in queste ore diventa dav­vero un inno alla vita. In realtà, ci si può scrollare del passato fatto di dolori e privazioni, solo rileg­gendo il tempo della lunga prigionia al­la luce della speranza cristiana che ani­ma i credenti. Con la loro liberazione tut­to, oggi, è un po’ più possibile rispetto ai mali che ci assillano e sarebbe davvero un guaio se le grandi agenzie del 'signi­ficato', poco importa se giornalistiche o letterarie, cui spetta di tenere viva la memoria, lasciassero cadere nel di­menticatoio quanto è accaduto a queste nostre due sorelle. Anzitutto, perché il loro coraggio rende onore all’Italia e soprattutto alla nostra Chiesa che le ha generate affidando lo­ro un esplicito mandato missionario. E dal momento che non è possibile zitti­re «la voce di chi non ha voce», in que­sta circostanza il pensiero 'cattolico', cioè 'universale' è rivolto al disastrato popolo somalo, venuto frammentaria­mente alla ribalta in occasione di que­sto sequestro. Un Paese dimenticato, in preda a barbarie d’ogni genere, dove ol­tre tre milioni di sfollati sopravvivono in condizioni subumane all’addiaccio e nella più squallida miseria. Secondo al­cuni, di fronte a questo scenario infuo­cato, sarebbe in atto uno scontro che coinvolge l’identità complessiva della ci­viltà occidentale e quella islamica. Eppure, il messaggio del martire Char­les Foucauld, cui fedelmente si ispira la famiglia missionaria delle due missio­narie liberate, è di tutt’altro tono. Esse hanno declinato, animate dallo spirito del fondatore, la loro vita 'per tutti' e 'contro nessuno', nella consapevolez­za che il Bene, prima o poi, prende il so­pravvento sui fanatismi e gli orrori del nostro tempo. In questo senso Caterina e Maria Teresa sono state delle fedeli in­terpreti di un’innocenza rivendicata so­lo e unicamente attraverso il dettato e­vangelico. Non possiamo pertanto fare a meno di ricordare, col cuore e con la mente, tutti quei missionari e missio­narie che testimoniano l’amore di Cri­sto ad ogni latitudine del Pianeta. Essi so­no tutti lì, in prima fila, disseminati lun­go la frontiera dell’emarginazione e del disagio. D’altronde, è bene rammentar­lo, la frontiera è il 'locus' per eccellen­za della 'missione' e coincide con quel­le linee di faglia dove queste sentinelle della carità sono chiamate a difendere i diritti di tanta umanità dolente. Una cosa è certa: se a duemila anni dal­la venuta del Cristo, avvengono ancora così tanti misfatti, dei quali la vicenda delle nostre due religiose rappresenta il paradigma, è segno che la voce della cri­stianità corre ancora per il deserto. Pro­prio come scriveva Giovanni Paolo II, nel prologo dell’enciclica Redemptoris Mis­sio «La missione di Cristo redentore, af­fidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento».
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