venerdì 31 maggio 2013
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Sentiamo dire: con tutti i problemi che ha l’Italia, è proprio questo il momento per parlare di cittadinanza ai figli degli stranieri e di abrogazione del reato di clandestinità? Ebbene, sì: il momento è ora. Perché un governo di larghe intese è l’occasione migliore per sottrarre la materia dell’immigrazione al terreno della propaganda e delle astrattezze ideologiche. E per ridisegnare finalmente, intorno a questo tema, un grande patto civile. Un patto sorretto da due pilastri: una politica di intelligente e generosa accoglienza e di pieno riconoscimento dei diritti, accompagnata da un convinto e determinato contrasto alla criminalità, che assicuri, soprattutto ai ceti più deboli che vivono nei quartieri popolari delle nostre grandi città la certezza che i nuovi flussi migratori non scardineranno le fondamentali regole di convivenza. È ora il momento di riconoscere che il reato di 'clandestinità', con la sua forte connotazione ideologica, appartiene alla propaganda. È un reato inutile e ingiusto. Promette risultati che non può raggiungere: perché la sanzione prevista per questo reato – poche migliaia di euro di ammenda – non è certo tale da spaventare i delinquenti incalliti. In compenso, è iniquo: perché riesce invece a spaventare il lavoratore onesto anche se 'irregolare', che spesso ha tentato inutilmente di 'regolarizzarsi'; e alla fine si vede coinvolto in un processo penale, che lo schiaccia crudelmente sullo stesso piano di uno spacciatore o di un rapinatore. Un’ingiustizia ancor più grave se si tiene conto del fatto che la nostra legge sugli ingressi per chi è in cerca di lavoro, con le sue prassi e i suoi tempi lunghi di applicazione, costringe alla irregolarità migliaia di stranieri che hanno un lavoro, una casa, un datore di lavoro che vorrebbe regolarizzarli ma non ci riesce. Questo giornale lo denuncia da tempo: l’attuale sistema degli ingressi – fondato sulla «chiamata nominativa» di una persona che sta all’estero e, dunque, il datore di lavoro non conosce – si basa su una finzione: che domanda e offerta di lavoro si incontrino all’estero; mentre tutti sappiamo che esse si incontrano nel luogo in cui il rapporto di lavoro deve svolgersi e le persone possono conoscersi. È la legge del mercato: ogni giorno invocata, ma dimenticata soltanto in questo caso. Da questa finzione deriva una 'clandestinizzazione di massa', che coinvolge soggetti che nulla hanno a che fare con il circuito criminale. L’unico modo per prosciugare questa 'clandestinità di massa' è quello di favorire l’immigrazione regolare, dandole norme precise, procedure snelle, tempi brevi. E così concentrarsi sulla repressione dei delitti e sulla espulsione (effettiva e non solo cartacea) dei loro autori. Se riuscissimo a ragionare sui fatti e sulle condizioni reali, potremmo alla fine scoprire che su queste considerazioni è d’accordo la stragrande maggioranza degli italiani: anche quelli pronti ad applaudire le campagne contro i 'clandestini' ma pronti, poi, a fare carte false per assumere e regolarizzare quel 'clandestino' così bravo e così utile alla loro famiglia o alla loro azienda. E potremmo anche scoprire che magari quegli stessi italiani sono pronti ad ammettere che al figlio di quel loro dipendente, nato in Italia e che già frequenta la scuola elementare, sia giusto riconoscere la cittadinanza italiana. Perché questo è il diritto che oggi si vuole introdurre. Non si tratta di dare la cittadinanza a qualunque bambino che, magari casualmente, nasce in Italia; ma a chi già di fatto fa parte della nostra comunità: ad esempio perché è nato da genitori che da anni vivono e lavorano in Italia e frequenta le nostre scuole. È lo ius culturae, che Avvenire ha già da tempo indicato come la strada giusta. È, speriamo, l’idea illuminata anche di questo governo di larghe intese.
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