sabato 23 aprile 2016
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La settimana che si conclude oggi ha visto una nuova tappa nell’ormai pluridecennale conflitto fra politica e giustizia in Italia. Una raffica di interviste di Piercamillo Davigo, neo-presidente dell’Associazione nazionale magistrati – eletto a larga maggioranza dai suoi colleghi – sulla corruzione dei politici (che a suo avviso sarebbe in crescendo, senza neppure più il correttivo della vergogna per gli atti di corruzione) hanno infatti avviato una nuova escalation. Tutto sembra ricondotto a uno stucchevole confronto fra "guardie e ladri", come nell’ultimo decennio della Prima Repubblica e come negli anni roventi del berlusconismo. L’Italia appare ferma lì, e uno dei protagonisti della stagione di Mani Pulite rivendica le sue posizioni più radicali, con frasi come «non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti» (in barba alla presunzione di non colpevolezza solennemente proclamata dalla Costituzione e dall’art. 6 Cedu) o «non ci sono troppi prigionieri; si sono troppe poche prigioni» (in barba all’idea del diritto penale, e della carcerazione, come extrema ratio).Il problema è serio. Perché il dottor Davigo, persona certamente integerrima e co-protagonista in vicende chiave nella storia d’Italia, è oggi la voce più alta dei magistrati italiani. Non parla per sé, ma per la categoria che rappresenta. Occorre dunque chiedersi se sia legittimo ridurre i conflitti fra politica e giurisdizione a una lotta fra "guardie e ladri", magari partendo dal dato di fatto dei livelli preoccupanti del fenomeno corruttivo in Italia (livelli più da America Latina o da Est Europa post-comunista che da Europa occidentale). E la risposta a questa domanda non può che essere negativa, almeno in due direzioni, entrambe le quali devono indurre alla prudenza (prudentia tout court, non solo juris prudentia) nell’uso delle parole.Da un lato il conflitto fra politica e giustizia è ineliminabile da qualsiasi società liberaldemocratica evoluta, che si basa, appunto, su un equilibrio instabile fra jurisdictio e gubernaculum. Ma questo conflitto ha assunto in Italia forme patologiche: e se alcune ragioni di esso sono quelle che indica Davigo (una corruzione più elevata), ne esistono tuttavia altre, che hanno la loro causa nell’esistenza in Italia della magistratura (requirente e giudicante) più potente del mondo occidentale. E se il potere corrompe, il potere assoluto corrompe in maniera assoluta, diceva Lord Acton. Si pensi alla folta e continua presenza di magistrati nell’agone politico (deputati, ministri, presidenti di regione, sindaci, addirittura capi partito); all’avvio di enormi inchieste mediante le quali alcune procure partecipano, condizionandola, alla politica industriale del Paese (Ilva e Tempa Rossa sono solo due casi fra molti). E si pensi al continuo ricorso ai provvedimenti cautelari per intervenire d’urgenza – e anche – arbitrariamente su questioni assai problematiche (si pensi al "caso Stamina") e ai molteplici volti dell’attivismo giudiziale, cioè a giudici che tendono a farsi legislatori nei settori più vari, dalle unioni gay all’eutanasia (non si può dimenticare la sentenza Englaro). Anche in questi giorni si assiste a magistrati che scendono in campo in vista del referendum costituzionale, mentre altri negli scorsi mesi lo hanno fatto – sui due versanti della controversia – sulla stepchild adoption nelle unioni di persone dello stesso sesso. Sicché la causa prima del conflitto politica-giustizia non è la corruzione, ma lo smarrimento dei confini fra le due sfere.L’altro versante della dialettica politica-giustizia in materia di corruzione sta nel fatto che se la lotta contro quest’ultima è essenziale, occorre definirne bene i confini (ad esempio non spacciando per corruzione ciò che, pur eticamente discutibile, non rientra nella sfera di operatività delle fattispecie penali: e proprio alcuni aspetti dell’inchiesta su Tempa Rossa offrono buoni esempi al riguardo) e, soprattutto, avere consapevolezza che la repressione penale non può essere l’unico mezzo per contrastare il fenomeno. Esistono – e devono essere efficaci – azioni sul piano educativo, dell’opinione pubblica, del costume civile, della prevenzione. E non si può negare che l’istituzione dell’Autorità anticorruzione (palesemente "non amata" da alcuni settori della magistratura) costituisca finalmente un passo significativo in questa direzione. Insomma, assieme ai segnali inquietanti non mancano segni di un nuovo impegno, nella direzione di un contrasto effettivo. Compito che è irrinunciabilmente (anche se non esclusivamente) proprio della classe politica, che in nessuna sua parte dovrebbe più illudersi di poter "usare" tatticamente lo strumento della lotta "guardie e ladri" per regolare i conti con l’avversario. La storia recente dimostra che certe guerre rischiano di non finire mai, non debellano la corruzione e non incoronano vincitori.

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