venerdì 17 maggio 2013
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«Yes, I can»: sembra questa la nuova edizione 2.0 dello slogan che contribuì a rappresentare la nuova America di Barack Obama nel 2008. Da «noi possiamo» a «io posso» (e voi no, sottinteso). I primi mesi di questo secondo mandato presidenziale non sono stati certo facili per l’inquilino della Casa Bianca, alla presa con il sequester (i tagli automatici alla spesa pubblica) e con un’opposizione repubblicana disposta persino a correre il rischio di azzoppare la ripresa economica pur di trasformare il presidente in 'un’anatra zoppa', un leader dall’autonomia indebolita. Ma non si aspettava certo il regalo di questa raffica di scandali che hanno investito l’amministrazione in poche settimane, lambendo la stessa Casa Bianca. I casi sono noti, e proprio ieri il nostro giornale ne ha dato ampio risalto nell’articolo di Elena Molinari: gestione poco trasparente dell’attentato terroristico contro il consolato di Bengasi lo scorso settembre, intromissione in gran segreto nelle mail dei giornalisti della Associated Press per scovare la 'gola profonda' nell’amministrazione che fornisce notizie riservate ai media, e accanimento fiscale da parte dell’agenzia delle entrate americana nei confronti dei movimenti di opposizione riconducibili al Tea Party. La Casa Bianca minimizza e nega le responsabilità presidenziali; talvolta con una certa goffaggine, come quando ha cercato di presentare l’agenzia delle entrate nella veste di «un’autorità indipendente» e non come un’agenzia governativa e quindi posta sotto la responsabilità politica dell’esecutivo. Proprio questo comportamento ha finito coll’irritare maggiormente i media e la stessa opinione pubblica liberal, perlomeno quella non acriticamente partigiana.
Ciò che più lascia perplessi, quando non sconcertati, un numero crescente di osservatori e di semplici cittadini è l’attitudine del presidente a pretendere che le forzature eventualmente compiute dalla sua amministrazione rappresentino poca cosa di fronte alla rilevanza degli obiettivi da perseguire: che siano quelli di proteggere e alimentare la ripresa economica, tutelare la riservatezza del processo decisionale interno all’esecutivo o combattere contro il terrorismo. Si tratta di un atteggiamento spesso definito (impropriamente) 'machiavellico', che poco si addice al presidente che aveva condotto la sua prima campagna proprio all’insegna della lotta contro i privilegi, le connivenze e le opacità della 'superclasse' di ricchi e potenti (politici e banchieri) che giustificavano i peggiori misfatti e la loro copertura nel nome di superiori interessi. Ma soprattutto questo ricorda un (grande) presidente del passato, Richard Nixon, che nell’immaginario dell’americano medio, tanto più se democratico, è però ancora associato con l’immagine del 'bugiardo' per definizione. Un parallelo pericolosissimo, evidentemente, che fa apparire gli scandali sessuali di Bill Clinton una cosetta da nulla… La Casa Bianca fa di tutto per allontanare questa similitudine e però si ritrova messa alle strette da una stampa, compresa quella liberal come il New York Times, che ha sempre mal sopportato la propensione del presidente a scavalcarla, a ricercare un contatto con gli elettori non mediato dalle grandi firme del giornalismo progressista. Proprio dalla stampa 'amica' sta partendo il fuoco più insidioso, perché lascia intendere che il presidente, sotto sotto, abbia una personalità autoritaria, poco incline al compromesso se non quando tale compromesso è necessario alla preservazione del suo potere personale. Un presidente forse persino incline a mentire, quando lo ritenga utile. Se il sospetto dovesse venire in qualche modo corroborato, potrebbe aprirsi una stagione nera per Obama. Per aver mentito Nixon dovette dimettersi e Clinton dovette passare gran parte del suo secondo mandato a difendersi dal rischio di impeachment: difficile immaginare che un moralista (anche un po’ presuntuoso) come Obama potrebbe farla franca… Evidentemente, si tratta di un pessimo viatico per le grandi sfide che attendono la Casa Bianca nei prossimi mesi, e che rendono estremamente incerta l’approvazione delle riforme con le quali Obama vorrebbe lasciare il suo segno permanente sull’America del XXI secolo.
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