Francia: netta solo la sconfitta di Le Pen
martedì 9 maggio 2017

Più incognite che certezze accompagnano la vittoria, pur netta e inequivocabile, che ha spalancato a Emmanuel Macron le porte dell’Eliseo. L’«uomo nuovo» che per cinque anni guiderà la Francia ha una brevissima esperienza politica alle spalle, un solo passaggio dal voto popolare, esattamente quello delle presidenziali, e un programma «né di destra né di sinistra», sufficientemente pragmatico e capace tanto di non scontentare nessun soggetto sociale quanto di deluderli tutti. Il coraggio di mettere l’Europa al centro del suo programma – scelta certamente anti-populista – e il generale sollievo per lo stop all’avanzata della destra estrema di Marine Le Pen, ancora più gravida d’interrogativi, rischiano pertanto di oscurare alcune chiavi di lettura di queste elezioni presidenziali.


Innanzi tutto, dietro al voto francese c’è il desiderio di cambiare, di andare oltre i consolidati protagonisti della scena politica, fossero partiti o uomini politici, ritenuti inadeguati a governare una fase vista – a torto o a ragione, secondo le prospettive – di perenne emergenza e quindi da affrontare con risorse e idee sempre nuove. È l’oggettiva accelerazione delle nostre vite e della percezione che ne abbiamo grazie a un sistema mediatico in perenne fibrillazione che porta alla generale insofferenza per i volti già visti e ai rapidi innamoramenti per i "rottamatori" di turno. Ma sono infatuazioni superficiali, che hanno risparmiato la leader del Front National – da anni sulla scena – soltanto perché la sua ricetta drastica non è stata ancora messa alla prova dei fatti e ha incarnato sempre di più la svolta anti-europeista e sovranista, da una crescente platea ritenuta la migliore via d’uscita dalla (presunta) crisi strutturale delle democrazie europee.


Macron è il candidato che in un anno è riuscito a creare un proprio movimento – La République en Marche – e ad accreditarsi come l’esperimento più credibile all’interno di un’architettura istituzionale - il doppio turno - che l’ha indubbiamente favorito, insieme agli insuccessi politici e ai guai giudiziari della vecchia guardia (leggi: socialisti in blocco e Fillon, punta di lancia dei neogollisti). Il pacato economista con un retroterra filosofico alla scuola di Paul Ricoeur ha bruciato le tappe sulla scena pubblica quanto lo sfacciato miliardario Donald J. Trump che ha scaldato i cuori dell’America profonda e della classe lavoratrice in cerca di rivincite su un establishment sentito sempre più lontano.


Non è un paradosso che due figure così lontane (come lontane sono state negli ultimi decenni Parigi e Washington) abbiano avuto un percorso simile. Se l’imperativo è cambiare, provare un altro "prodotto", senza appello dopo la prima esperienza non soddisfacente, il risultato non dà garanzia di qualità. Anzi, il meccanismo può rivelarsi assai pericoloso. Dalla parte dell’offerta, alimenta il cinismo nel proporre aspiranti leader conformati all’umore del momento; dalla parte della domanda, crea il totale disincanto che fa dare un distratto assaggio per poi gettare gli avanzi alla ricerca di un altro sapore.


Macron ha dichiarato ambizioni che si scontreranno con una realtà complessa, programmi di spesa rigoristi che potranno allargare il disagio sociale e orientamenti in campo bioetico piuttosto libertari. La sua dedizione europea potrebbe tradursi in significativi passi avanti solo se andrà nella direzione di una solidarietà finalmente operativa sulle migrazioni e sulla giustizia sociale e di una spinta alla crescita che sostenga l’occupazione con programmi espansivi oltre le strettoie del Patto di stabilità.


Su questo versante avrà certo bisogno della sintonia con la Germania, partner obbligato di qualunque svolta nella Ue, ma un diverso approccio alle relazioni tra Stati, cittadini e Unione potrebbe essere la vera carta da giocare per chi si è presentato nella sera del trionfo accompagnato dall’inno continentale.

La scommessa del neo-presidente è tutta giocata sulla competenza per convincere un elettorato che si fa tentare spesso dal rifiuto emotivo verso gli "esperti" (si veda il caso dei vaccini). L’appuntamento di giugno delle legislative dirà se Macron ha qualche chance o dovrà subito misurarsi con la scetticismo di chi domenica l’ha premiato solo per mancanza di alternative e con il residuo (e non irrilevante) radicamento territoriale dei vecchi partiti moderati e progressisti.


In ogni caso, la lezione di Parigi conferma che il consenso è volatile e i populismi – stenografia per le mille inquietudini del tempo – stanno sempre alla porta, pronti a irrompere se non li si contiene e non si danno risposte credibili a problemi effettivi.

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