giovedì 5 dicembre 2013
Non cambiare istituzioni o linea economica ma creare una classe dirigente.
di Andrea Lavazza
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«Qual è il numero di telefono dell’Europa?». La battuta, leggendaria e abusata, attribuita a Henry Kissinger era efficace come spesso risultavano i giudizi tranchant del segretario di Stato Usa, poco diplomatico come quando allo stadio con Gianni Agnelli liquidava così il basket: «Si segna troppo». Ma i tempi cambiano e anche le battute vanno aggiornate. La pallacanestro negli Usa è diventata uno sport da diretta in prima serata e con un super fan alla Casa Bianca (trent’anni fa non andava quasi in tv). E la Ue continua a essere irreperibile come soggetto unitario sulla scena internazionale, timida e impacciata, oppure, più facilmente, divisa e litigiosa al suo interno. Ma anche le comunicazioni sono state rivoluzionate. E in una rinnovata metafora telefonica sta forse una possibile via per un rafforzamento e una "rinascita" europea, nel momento in cui tutti si attendono una slavina di euroscetticismo alle prossime elezioni di maggio. Anche il nonuagenario Kissinger sa bene che oggi, soprattutto in casi di urgenza, si chiamano i cellulari. E che quasi nessuno cerca più i numeri sulle guide telefoniche. In sintesi, all’Unione sotto tiro da tante parti servono persone più che istituzioni, e persone conosciute, con cui si è in confidenza tanto da averne il numero personale. Perché così funzionano le relazioni nel 2013. A pensarci sembra una ricetta semplice, seppure tanto difficile da realizzare. Secondo i suoi critici (sempre più numerosi), l’Europa è burocratica e arida, non scalda i cuori e non trasmette valori, detta la misura degli ortaggi e impone il rigore che strangola le economie. Resta ecumenicamente appiattita sull’ordinaria amministrazione, ma fa figli e figliastri quando deve decidere su questioni importanti. Incapace di reagire alla grande crisi che ha fatto schizzare la disoccupazione al 12,1%, ha il volto arcigno della miope Bundesbank tedesca, che senza pietà impone ai partner deboli un’austerità esiziale. Ma nessuno sa poi dove trovarla, se è vero che i Palazzi dei vari organismi Ue non finiscono sotto l’assedio delle proteste con la frequenza che dunque ci si aspetterebbe. I populismi hanno buon gioco ciascuno nella propria "patria", contro un bersaglio tanto grosso quanto inerte: si presta a caricarsi di tutte le colpe senza che nessun singolo individuo si senta chiamato in causa a replicare. Non sarebbe allora il momento di avere figure politiche non solo riconoscibili, ma davvero europee? Non è questione di un presidente con mandato più lungo o con maggiori poteri, bisogna rassegnarsi al fatto che la sede della Commissione non conferisce una "grazia di stato" simile a quella che possono dare, diciamo, la Casa Bianca o il Quirinale. Non conta la carica, ma chi la detiene. D’altra parte, le dinamiche del potere di questi decenni hanno visto affermarsi leadership carismatiche e partiti personali, sfide di slogan e di immagine, con gli "spin doctor" – gli stregoni che incantano i media per i loro committenti – più importanti degli economisti nel costruire i successi elettorali. Da Blair a Berlusconi, da Clinton a Sarkozy fino a Obama, vogliamo (o ci siamo abituati a) una classe dirigente di cui sappiamo gusti e vizi, con una vita privata da copertina e una vocazione a stare sempre sulla ribalta, non necessariamente grazie a scelte illuminate e coraggiose. Si può lamentare la fine delle ideologie post-muro di Berlino, il declino dell’ispirazione religiosa in un’era secolare, il tramonto delle grandi narrazioni nell’epoca postmoderna, ma resta il fatto che dobbiamo fare i conti con una politica che fa leva soprattutto sul sorriso e la "storia" che un leader sa esprimere. L’identificazione scatta con un specifica persona, i pensieri vanno non a un partito o un’idea astratta, bensì a una figura che riempie le televisioni quanto i social network. Tanto che pure i movimenti populisti progettano di allearsi per dare un riferimento visibile e comune, coagulando lo scontento montante. Esistono le eccezioni in stile Merkel, ma la tendenza, almeno nel breve periodo, sembra segnata. Chi sa qual è la formazione di cui è espressione Vladimir Putin? La risposta giusta è che lui costruisce il partito e non viceversa. A Londra il grigio Gordon Brown non è riuscito a capitalizzare l’eredità di Tony il brillante, mentre a Parigi il centro-destra, privo di figure di spicco, è tentato di richiamare in servizio il duo Sarkozy-Carlà. A Bruxelles, tuttavia, non serve un leader nazionale riciclato alla causa europea, opzione vecchia maniera, capace solo di suscitare gelosie e diffidenze tra Paesi membri. Chi si è battuto per gli interessi della propria nazione può avere popolarità, ma non ha credibilità come rappresentante di tutti i 28 partner. Chi avesse credibilità quale europeista super partes (funzionari, tecnici...) non avrebbe la popolarità necessaria nemmeno per avviare il proprio percorso politico. L’Europa che punta a riconquistare gli animi dei suoi cittadini ha bisogno di figure credibili e popolari insieme, da amare, o anche detestare. A Washington e Mosca si deve avere il numero di cellulare del "Signor Europa", cui rivolgersi amichevolmente con il nome proprio, oppure interpellare gelidamente con un "mister presidente", secondo le occasioni. Un leader di questo tipo non si costruisce però a tavolino. Un Renzi o un Alfano su scala Ue deve frequentare i "Porta a porta" di tutte le nazioni; deve fare il piacione con il tango in Spagna e sorseggiare tè in Gran Bretagna, conoscere la cultura cristiano-ortodossa in Bulgaria e alzare il boccale all’Oktoberfest di Monaco. Non può stare rinchiuso in qualche consesso di esperti, ma sposare la causa del Vecchio Continente facendo scolorire la propria identità originaria. Forse, per fare qualche esempio, un Draghi con meno anni, meno italiano e molto meno banchiere chiuso nell’Eurotower a muovere le leve della moneta. Ma come si costruisce una nuova classe dirigente di tal fatta? Qui, i partiti conservano ancora un ruolo. Al prossimo voto per l’Europarlamento mettano in lista giovani competenti e poliglotti, senza esperienza politica nazionale ma con capacità e carisma nel proprio ambito professionale o comunitario. Li lascino lavorare nelle istituzioni non per fare lobby a favore del proprio Paese, bensì per il bene dell’Unione. La selezione farà emergere quelle figure di cui abbiamo necessità.Resta ancora una domanda. E non da poco. A che cosa si ispireranno, a loro volta, questi potenziali leader "europei"? Quale collante di consenso proporranno? Basterà la semplice proposta di un percorso di unificazione più "caldo" e "incarnato"? L’Europa piace a chi ne sta fuori (lo si vede tra i giovani – e non solo – in piazza in Ucraina come nei Balcani e perfino in Turchia) per il suo modello di convivenza pacifica, rispetto dei diritti, tolleranza e sviluppo umano, economico e scientifico. Tutto questo è frutto di un retaggio antico e stratificato, di solide radici culturali e religiose, da cui alimentarsi e che vanno alimentate. Un compito che può apparire persino antitetico al profilo, qui delineato, delle nuove figure di vertice. Eppure, da questa complessa alchimia sembra possa passare la via per ridare all’Europa l’energia che le manca se vuole reggere l’urto della crisi e delle risorgenti tentazioni nazionalistiche. Pur augurando lunga vita a Henry Kissinger (classe 1923), se vogliamo finalmente dargli quel numero di telefono, bisogna fare presto.
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