sabato 29 agosto 2009
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Che i due principali candidati alla guida del governo siano nipoti di statisti del passato in un Paese che ha il 22% della popolazione oltre i 65 anni, mentre deflazione e disoccupazione segnano dati record dal dopo­guerra, costituisce un segnale inequivocabile della sclerotizzazione politica e sociale di quella che rimane la seconda potenza economica del Pianeta. La probabile vittoria nel voto di domani del Partito democratico segnerà certo una svolta storica per gli annali giapponesi, dopo più di mezzo secolo di potere quasi ininterrotto – salvo 10 mesi – dei liberal­democratici. Ma difficilmente darà il via alla 'rivoluzione' di cui l’arcipelago mostra di avere bisogno. Il Dp è nato 11 anni fa da una costola del maggioritario Ldp; il suo leader, Ichiro Ozawa, sembrava rappresentare l’uomo nuovo, adatto a dare una scossa alla nazione. Ma la sua stella è tramontata l’anno scorso in una vicenda di tangenti al suo partito che l’ha accomunato alla tara peggiore che rimproverava – e non era certo il solo – proprio ai liberal-democratici che aveva lasciato: la corruzione e la lotta tra fazioni. A prendere il suo posto e a sfidare il premier uscente Taro Aso sarà Yukyo Hatoyama, che sulle ali dei dati economici deprimenti – i senza lavoro sono arrivati ufficialmente al 5,7%, potrebbero essere molti di più con statistiche meno elastiche – ha la possibilità di doppiare i rivali e conquistare i due terzi dei seggi alla Camera Bassa. Il suo programma è tanto ambizioso quanto irrealistico – dicono molti osservatori, come dimostrerebbe lo scetticismo con cui la gente ha seguito la campagna elettorale. Fattori culturali ed economici congiurano a rendere fosco il futuro del Giappone. Basti la testimonianza di un ingegnere della Toyota, il colosso che sotto i colpi della crisi ha ridotto in 7 mesi la produzione del 37%, raccontata su Avvenire da Piergiorgio Pescali: «Secondo le previsioni, nel 2040 andrò in pensione con il 35% del mio stipendio attuale. Non potrò mantenermi, tanto vale godermi la vita adesso». I (pochi) giovani, individualisti, edonisti e per nulla inclini a quell’esistenza di disciplina che ha fatto la forza del Paese per decenni, guardano ora con paura a un sistema previdenziale che andrà al collasso stante un’aspettativa di vita sempre più vicina ai 90 anni. Senza figli e con poco entusiasmo, segnato dalla piaga dei suicidi, il Sol Levante continua a fare ricerca e sfornare tecnologia, eppure non è più il gigante asiatico che vent’anni fa sembrava sul punto di comprarsi letteralmente gli Stati Uniti. Sull’agenda internazionale, Tokyo è stata soppiantata da Pechino, anche perché gli eserciti continuano a contare e sul Giappone pesa il divieto di partecipare ad azioni belliche fatto scrivere da Washington nella Costituzione redatta dopo il secondo conflitto mondiale. «Esporteremo cultura popolare» (fumetti manga e cartoni anime , di cui è appassionato malgrado i suoi 68 anni), ha detto Taro Aso. Oggi pesano per il 2% dell’export, e in ogni caso non appaiono la panacea per i mali di una grande nazione, forte di tradizioni e di cultura nobili e secolari, che non può ridursi a fenomeni tanto folcloristici visti da lontano, quanto preoccupanti socialmente, come gli otaku e i cosplay. I primi sono i giovani che si isolano nell’ossessione di qualche videogioco e i secondi i bar dove ci si incontra travestiti da personaggi dei manga per fotografarsi a vicenda. Paradossalmente, Tokyo ha forse bisogno di più globalizzazione in casa, mentre i suoi prodotti hanno da tempo invaso il mondo. Un’apertura, fisica e metaforica, per svecchiare il sistema e ritrovare la linfa nelle proprie radici, che non sono soltanto quelle biecamente nazionalistiche che i politici conservatori spesso agitano a scopi elettorali.
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