martedì 16 aprile 2013
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Chi ha vinto? Chi ha perso? Ma, soprattutto, che cosa fare ora? Dopo il flop del referendum consultivo sull’Ilva a Taranto queste domande pretendono risposte. Chiare e rapide. Il segnale che arriva dagli abitanti della città pugliese non è da sottovalutare. In meno del 20 per cento sono andati a votare, dunque siamo molto lontani dalla soglia del 50 per cento necessaria per la validità della consultazione. E la percentuale scende ancor di più nei quartieri confinanti con l’acciaieria, quelli più colpiti dall’inquinamento, come Tamburi (meno del 15 per cento). Vuole dire che la gente non è preoccupata della propria salute? Sarebbe azzardato e profondamente sbagliato affermarlo. Sicuramente ha inciso il timore che il "sì" alla chiusura portasse alla perdita di migliaia di posti di lavoro. Ma anche qui sarebbe sbagliato affermare che sia scattato una sorta di "ricatto occupazionale", un lavoro qualunque esso sia, anche a costo della vita propria e dei propri cari. Né, come hanno sostenuto ieri alcuni promotori del referendum, tutto è colpa di una scarsa informazione. Tuttaltro.Piuttosto gli abitanti di Taranto hanno dimostrato di voler ragionare con la propria testa, di voler credere che lavoro e tutela dell’ambiente e della salute possono convivere. Già, con la propria testa e non con quella di chi, da fuori, viene a spiegare quali sono i tuoi problemi e come devi risolverli. A Taranto come in tante altre situazioni di tensione. Una "compagnia di giro" del "no", che passa da un cantiere all’altro, minoranza rumorosa (alcune volte anche violenta) che spesso pretende di parlare a nome dei locali. Una protesta generica e generale che non prova a capire le reali esigenze del territorio. Che vive solo dell’opposizione e non prova neanche a proporre soluzioni alternative ma realizzabili. Tanto poi i problemi restano qua. Gli abitanti di Taranto, loro sì "popolo inquinato", hanno dato una risposta chiara. Non sono certo masochisti. Preferiamo vederli come uomini di speranza. Che, come abbiamo scritto una settimana fa, non hanno scelto la strada dell’ "o la salute o il lavoro" ma quella dell’"e la salute e il lavoro". È la stessa indicata dalla sentenza della Corte costituzionale che ha respinto i ricorsi dei magistrati tarantini contro il decreto del governo che, appunto, vuole tutelare azienda e cittadini, lavoro e salute. E che sta dando in tempi brevi i primi importanti risultati, con un forte abbattimento dell’inquinamento atmosferico proprio nel quartiere Tamburi.I tarantini, con la loro scelta del "non voto", mandano perciò due precisi messaggi. Ai sostenitori – molto attivi su tanti fronti – dei "no" distruttivi, dicono «non parlate per noi». All’azienda e alle istituzioni, dicono «e ora si faccia davvero il risanamento, salvando lavoro e salute». Una scelta di responsabilità, come aveva auspicato il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, chiedendo piuttosto «un confronto sereno». Ora lo si faccia davvero, rapidamente e con risultati concreti. Ma un confronto tra chi davvero è parte in causa, sulla propria pelle, tra paura di perdita del lavoro e terrore di perdere la vita. A queste paure, entrambe legittime, non si può rispondere con un "sì" e con un "no". Gli abitanti di Taranto l’hanno fatto capire con chiarezza. Non si volti pagina troppo in fretta, non si consideri quella dei tarantini una "non scelta". No davvero. Hanno scelto, con forza. Hanno detto «scegliamo noi». Lo hanno fatto davvero, in silenzio, senza bisogno di rumorose iniziative. Con quello che è il più alto strumento democratico, il voto, anche quando liberamente e sonoramete non si esprime su un quesito che non convince.Ma ora, i tarantini, sono in credito di una risposta. Per il passato, su chi ha devastato il territorio: responsabili e conniventi. Per il futuro, affinché sia davvero diverso. E non si debba più scegliere, anche drammaticamente, tra un "sì" e un "no".
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