sabato 28 novembre 2009
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E’ presto per stabilire se questo sia il fallimento della cosiddetta 'finanza islamica', se cioè l’indebitamento del colosso degli Emirati Dubai World (le cui passività di 59 miliardi di dollari portano il debito del piccolo Stato del Golfo a più di 80mila miliardi) trascinerà con sé quel poco di fiducia che i mercati avevano ristabilito dopo due anni di crisi e se dunque un’altra tempesta si addensi sui cieli della finanza mondiale. Forse non accadrà. Forse le banche - quelle britanniche soprattutto - finiranno per inghiottire anche questo costosissimo rospo che fino ad ora avevano consapevolmente alimentato. Diciamo consapevolmente perché un passivo di 59 miliardi di dollari - tale ormai da impedire a Dubai World di poter pagare i soli interessi sul debito - non nasce dall’oggi al domani; ed anche se i vertici di quella società, formalmente di Stato, di fatto partecipata dall’oligarchia vicina allo sceicco al-Makthoum, si sono mostrati ripetutamente reticenti di fronte alle domande che provenivano dalle società di certificazione come Moody’s, sicuramente in molti sapevano che il gigantismo immobiliare dell’emirato aveva i piedi d’argilla. La preoccupazione degli investitori internazionali ­almeno ottanta, tra l’altro, sono le società italiane presenti negli Emirati, dalla moda al design, dall’ingegneria alla meccanica di precisione - è dunque condivisibile, anche se per ora l’allarme è relativo. Due strade si profilano, fra le molte percorribili: quella di una moratoria di sei mesi che congeli il debito-monstre di Dubai World e quella di un intervento di soccorso del vicino Abu Dhabi, ricco emirato petrolifero, che fino ad oggi si è fatto garante di molti dei prestiti concessi a Dubai. In attesa di saperlo, contentiamoci di domandarci cosa non ha funzionato in questo staterello di neanche 4 mila chilometri quadrati e un milione e trecentomila abitanti (per la maggior parte stranieri), dove le risorse petrolifere inaspettatamente sono scarse rispetto a quelle dei confratelli del Golfo e dove si è puntato tutto sulla finanza e sul turismo, dando vita a una bolla immobiliare figlia di un gigantismo senza limiti, i cui effetti sono visibili perfino dalla stratosfera: cosa dire infatti di Jumeirah, quell’isola artificiale a forma di palma strappata al mare pigro del Golfo, e quel grattacielo alto 780 metri, di quel trionfo di centri commerciali, alberghi a sette stelle come la 'vela' del Burj al Arab, piste da sci nel deserto, linee metropolitane sopraelevate lunghe 70 chilometri, una mecca commerciale e mondana che ha attratto vip e nomi noti da tutto il mondo, da Schumacher a Beckham, da Brad Pitt a Angelina Jolie insieme a banche e istituzioni finanziarie grazie anche alle generose esenzioni fiscali? Ma al’epoca del boom si dava grande risalto alla diversità di Dubai, che cresceva e prosperava - si diceva - grazie anche alla finanza di matrice islamica, che avrebbe dovuto far da modello alle corrotte democrazie occidentali. Eppure proprio quella 'finanza islamica' di cui si decantavano le doti etiche e l’assenza di ogni risvolto meramente speculativo ha finito per assomigliare in tutto e per tutto a quella occidentale tanto da diventare la leva moltiplicatrice che ha ingigantito il debito di Dubai fino a fargli raggiungere dimensioni quasi pari a quelle dei suoi faraonici grattacieli. La corsa dissennata alla crescita (che si traduceva nella richiesta perpetua di finanziamenti sul mercato internazionale), l’elefantiasi di ogni lusso e di ogni spreco (cui peraltro faceva da contraltare l’assenza di tutele per chi lavora e in ultima analisi la mancanza assoluta di democrazia)sono oggi all’origine della crisi di Dubai. Figlia e specchio perfetto di quella crisi finanziaria cominciata due anni e mezzo fa negli Stati Uniti. Là collassavano imperi di carta, qui rischiano grosso reami di cemento. In entrambi i casi, ali di cera di un Icaro imprudente e insieme tracotante.
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