mercoledì 15 luglio 2009
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In questi casi si usa dire che era inevitabile. È la crisi, bellezza. Ma non è facile rassegnarsi all’idea che la geografia del campionato italiano più che dai gol, venga decisa da un organismo sinistro nel nome (Co.vi.soc.) e inquietante già solo per i puntini che lo attraversano. Eppure è così. Il Comitato di vigilanza sui bilanci delle società sportive ha stabilito che, insieme ad altre società minori, anche Pisa, Treviso, Venezia, Pistoiese, Avellino e Sambenedettese non potranno iscriversi al prossimo campionato di calcio. Bilanci in rosso, stipendi pagati in ritardo o mai pagati, banche che non “coprono” più. Dovranno ripartire dai dilettanti, i club di questa provincia sempre più provincia. Cancellando una fetta di storia sportiva italiana. E di cultura – spicciola forse, comunque orgogliosa – quella che ha fatto crescere chi scambiava le figurine di Frustalupi con la maglia arancione della Pistoiese. E che ha imparato da piccolo che Sambenedettese non era una città, ma un’idea esotica di pallone misterioso. Calcio di retroguardia, ma nemmeno poi tanto se il Treviso fino a quattro anni fa giocava in Serie A. E se solo nel 2002 il Venezia, allora di Zamparini, presidente che in vita sua ha cambiato più allenatori e squadre che camicie, sfoggiava un certo Recoba e batteva la Juventus in Coppa Italia. Verrebbe da chiedersi come mai gli organi di controllo del pallone sono sempre così (giustamente) rigorosi quando c’è da valutare lo stato patrimoniale dei piccoli club, e invece molto più morbidi se quello da esaminare è il bilancio di una grande. Che trascina voragini di debiti per anni, ripianando poi chissà con quali soldi, ma senza mai abbandonare il segno meno. E verrebbe da chiedersi di cosa discutano i padroni del pallone nelle loro infinite riunioni in Lega e Federcalcio, per evitare la strage in atto. Perché è vero che tutti gli altri sport soffrono: fallimenti e cancellazioni non sono certo una sua prerogativa. Ma il calcio ha ballato per troppo tempo sulla musica di un’opulenza fittizia, ignorando regole e buonsenso finanziario, per non risultare oggi più colpevole di altre discipline. E anche più irritante. Un esempio? L’unica, 'grande' novità della prossima stagione: il quarto d’ora in più. Tanto vale il rigurgito rivoluzionario del trust di cervelli che tenta di fare qualcosa per salvare il pallone italiano che non vince più in Europa, che si fa saccheggiare dai club stranieri e che ha improvvisamente fatto i conti con la crisi economica. Dunque anticipi e posticipi del prossimo campionato inizieranno alle 20.45 anziché alle 20.30. Però. Che cataclisima. Quindici minuti (in attesa della partita della domenica all’ora di pranzo a partire dal 2010) che sono un regalo in più alle televisioni che pagano. E che potranno entrare negli spogliatoi degli stadi, gestendo interviste ed esclusive. Insomma un calcio sempre più “guardone” e sempre meno capace di vedere i bisogni veri del sistema. Come liberare gli stadi dalla marmaglia ultrà (che vergogna la “tessera del tifoso” concepita dal ministro Maroni quasi come una legge e bellamente disattesa da quasi tutti i club). O imporre un tetto a certi inaccettabili ingaggi dei calciatori. O ancora, ridurre il numero insostenibile degli attuali club professionistici, inserendo un serio sistema di controlli preventivi sui bilanci. Il pallone ci aveva insegnato che indebitarsi (“con creatività”, dicevano) fosse l’investimento più sicuro, o comunque più tollerato. Spalmando i debiti e usando sistemi vietatissimi ad altre aziende, ha vivacchiato qualche anno in più. Si sbagliava: ha solo allungato l’agonia. E se ne accorge adesso.
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