I vecchi giochi tattici che fanno crescere la sfiducia
giovedì 21 maggio 2020

L’esito scontato delle mozioni di sfiducia al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, respinte ieri al Senato dopo giorni di tensioni e minacce di crisi tra le forze di maggioranza, ripropone il tema del rapporto tra le urgenze, le necessità e le preoccupazioni del Paese e i giochi tattici dei partiti politici, nessuno escluso. La vicenda che ha portato Bonafede dinanzi ai senatori, infatti, incrocia temi serissimi. Primo, la reale condizione dei detenuti nelle carceri prima e durante l’assalto del virus, all’origine, in ogni caso, delle decisioni dei Tribunali di sorveglianza oggetto di polemiche (e motivo, poi, del frettoloso varo di un decreto riparatore). Secondo, la capacità effettiva dello Stato di contrastare l’azione dei boss, capacità di cui si dubita addirittura quando i capimafia sono in regime di 41bis. Terzo, il rapporto ormai incancrenito tra politica e magistratura (e media), a dispetto della stragrande maggioranza dei togati che lavora senza tregua per la sicurezza e la legalità e a dispetto dei cittadini che non riescono a ritrovare fiducia nel bene–giustizia: un rapporto segnato da un lato da rivendicazioni di autonomia (dei magistrati) e di primazìa (della politica), dall’altro da sacche di collateralismo dai fini spesso opachi e trasversali.

Le mozioni di sfiducia presentate dalle opposizioni e da +Europa, ovviamente legittime e non prive di argomenti, come da previsione hanno però nei fatti impedito di affrontare nel merito questi e altri nodi centrali. Il dibattito al Senato ha avuto anche momenti alti, ma le mozioni di sfiducia individuali, ormai è un dato storicizzato, alimentano una serie di riflessi condizionati. Dentro e fuori la maggioranza di governo. La mozione individuale è comunque un’arma spuntata, non fa cadere i ministri e i governi e ormai se ne fa uso solo per marcare posizioni, andando a indebolire e non a rafforzare la funzione di controllo del Parlamento sul governo. Tanto più che la Lega di Salvini, il partito più duro nei confronti di Bonafede sulla scarcerazione dei boss nelle ultime settimane, ieri ha votato addirittura la mozione di sfiducia di Emma Bonino che, tra le altre cose, metteva sotto accusa riforme (come quella sulla prescrizione) che Bonafede ha firmato proprio insieme al Carroccio, nel precedente esecutivo. Analogo discorso vale per la maggioranza, che è tenuta a trovare soluzioni ai problemi concreti e a non far perdere tempo a un Paese già in serissima difficoltà. A fronte di un’arma spuntata e destinata a fallire, la mozione di sfiducia, Matteo Renzi (che pure ha tenuto un discorso vibrante) ha pensato di alzare il pressing su altre partite politiche e di tenere l’esito (fintamente) in bilico sino all’ultimo, lasciando di nuovo il cerino in mano al premier e dando, così, implicitamente ragione a chi lo accusa di usare la “strategia della tensione”. Idem per il Pd, che in questi frangenti sembra appiattirsi su un concetto della responsabilità che appare rinuncia ad affrontare e risolvere definitivamente i problemi di questa difficile ma necessitata alleanza con M5s (e la giustizia è uno dei problemi più grossi).

Nei tatticismi di questi giorni è rimasto impantanato di nuovo anche lo stesso Movimento, che continua a rimandare il proprio “esame di maturità”, quello in cui dovrà dire che l’attacco populistico del passato alle istituzioni è oggi un fardello, quasi un peso sulla coscienza che impedisce di affrontare con pragmatismo e buon senso (che non sono nemici dell’onestà e della rettitudine) i più importanti dossier. Perché su un fatto, ieri, era difficile dare torto alle opposizioni, a Renzi, ai malpancisti del Pd e a qualche silenzioso “purista” pentastellato: M5s non avrebbe usato alcuna misericordia verso un ministro della Giustizia che vede uscire boss di galera mentre un noto pm antimafia, in tv, lo accusa di avergli avanzato e poi ritirato la proposta di guidare il Dap. ”Mozione di sfiducia”, quindi, per i partiti di maggioranza e opposizione che ieri hanno messo in scena un dramma senza pathos. Mozione di sfiducia perché questa storia dal finale annunciato è diventata concausa dei ritardi di provvedimenti economici cruciali e, tra l’altro, ha “sporcato” di sospetti un atto di dignità civile e politica: la moderata misura di emersione di lavoratori immigrati. Mozione di sfiducia a maggior ragione se tutto questo esasperato tatticismo avesse come fine un rimpasto per siglare l’ennesima fragile tregua di maggioranza.

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