giovedì 24 ottobre 2013
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L’uomo, ogni uomo, è co­me diviso in due. Sa dove abita il bene e spesso sceglie il male, parla di libertà e poi fini­sce per costruirsi prigioni di rabbia e solitudine. Il credente non fa eccezione. Dieci, cento, mille volte si è sentito ripetere che Dio ama gli ultimi, i più po­veri tra i poveri, i rifiutati da tut­ti. Eppure deve sforzarsi ogni volta per andare oltre la soffe­renza, per vedere in fondo a u­no sguardo spento il volto di un amico, il sorriso di un fratello, l’immagine di Gesù stesso. Invece il Signore abita proprio lì, è nelle piaghe del malato in­curabile, nella rabbia sconfitta del detenuto, nella solitudine dell’anziano dimenticato in un ospizio.
Lo ha ricordato con de­licata chiarezza il Papa ieri. Par­lando ai cappellani delle carce­ri italiane, Francesco ha sotto­lineato che nessuna cella è co­sì isolata da escludere il Signo­re, che Dio non rimane fuori dalle prigioni, che il suo amore paterno e materno arriva dap­pertutto. Anche nella cella so­vraffollata, persino nell’istituto di massima sicurezza, tra i plu­riomicidi in regime di 41 bis. U­na presenza, la sua, che non e­sclude il nostro impegno ma al contrario lo fa più urgente, ci richiama al dovere di rendere il sistema carcerario tollerabile, l’apparato detentivo, umano. Perché dietro le sbarre non ci sono persone di serie B ma a­nimate dalla speranza che è quella della 'gente per bene', la medesima voglia di felicità, lo stesso spirito di libertà. In fondo, ha ricordato ancora Bergoglio, al posto loro poteva­mo esserci noi, perché le debo­lezze sono di tutti, e se noi non siamo caduti, è perché abbia­mo avuto maestri saggi, fami­glie capaci di farci crescere, ma­dri che hanno pregato per noi, amici con cui confidarci. Rela­zioni buone, insomma.
Non basta allora chiedere, com’è doveroso, la punizione del colpevole, il suo pentimen­to. Occorre accompagnarlo nel cammino di liberazione, offrir­gli opportunità di riscatto, brac­cia da afferrare, spalle su cui piangere. Giustizia di riconci­liazione, l’hanno chiamata i cappellani nel loro convegno, e l’immagine richiama speranza, porte aperte, orizzonti spalan­cati sul domani. Da questi sa­cerdoti «segno della vicinanza di Cristo» ai detenuti, come li ha definiti il Papa, viene l’e­sempio e insieme un monito. Un invito alla vicinanza, alla comprensione, alla preghiera. La sollecitazione a visitare quei luoghi di sofferenza che sono le prigioni, per imparare la diffi­cile arte del perdono, l’amore verso chi sembra non meritar­lo, la forza di donarsi a chi non sente neppure il dovere di dire grazie. Gli stessi difetti, le me­desime miserie, che percorrono la vita di chi sta fuori, spesso o­staggio di una sterile autosuffi­cienza, incapace di lasciarsi a­mare, poco o nulla disponibile a ringraziare.
In fondo guarda­re con benevolenza a chi sta in cella, piangere, lavorare con lo­ro, è anche un modo per uscire dalle nostre personali prigioni, segare le sbarre che ci siamo co­struiti giorno per giorno. Un carcere interiore che si chiama egoismo, bramosia di potere, insofferenza verso chi è più po­vero e debole. Però la chiave per uscirne c’è, si trova lungo il sen­tiero ripido e stretto dell’umiltà, nella forza dell’ascolto, nella di­sponibilità a mettersi in fondo alla fila. Perché chi cammina in coda ha più tempo per alzare gli occhi al cielo, per sperimentare l’amo­re di Dio e la sua misericordia. Forza che libera, finestra che re­gala aria nuova, luce che resta accesa anche nella notte più nera, vissuta nel buio di una cella.
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