sabato 4 maggio 2013
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Come in qualsiasi parte d’Europa, la storia recente dei Balcani occidentali è stata scritta nel sangue. Dal suo ruolo nello scatenare la prima guerra mondiale, attraverso l’occupazione e la resistenza della seconda guerra mondiale, alle battaglie e la barbarie che sono seguite al crollo della Iugoslavia, i popoli della regione hanno sofferto abbastanza.Lo scorso 19 aprile Ivica Dacic e Hashim Thaci hanno deciso di agire in maniera differente. Dopo sei mesi di colloqui diretti, i primi ministri di Serbia e Kosovo hanno concordato di normalizzare le relazioni. Hanno stabilito una serie di passi concreti che dovrebbero aiutare i loro popoli a bandire la paura, ad accrescere la prosperità e a svolgere pienamente il ruolo di membri della famiglia europea. Occorre guardarsi dai trionfalismi. Questa non è la fine del percorso. Siamo piuttosto a un bivio. Quello che è accaduto la scorsa settimana è che due uomini coraggiosi hanno scelto la via della pace. Questo non è il risultato che molti prevedevano sei mesi fa in occasione dell’incontro che ha riunito il signor Thaci e il signor Dacic nel mio ufficio a Bruxelles. Non si erano mai incontrati, anche se Belgrado e Pristina sono più vicine di New York e Washington. Io stessa ero lungi dall’essere ottimista, ma ritenevo che occorresse fare un tentativo. Per anni il mio ufficio ha mediato le discussioni tecniche su questioni quotidiane, ad esempio cosa dovesse accadere esattamente al confine tra Serbia e Kosovo. Queste discussioni avevano raggiunto un punto in cui era necessario un impulso politico e questo significava coinvolgere i due primi ministri. Fortunatamente entrambi hanno convenuto di lasciarmi presiedere i colloqui diretti.Il pomeriggio del 19 ottobre li ho accolti nel mio ufficio al sesto piano della nuova sede del Servizio europeo per l’azione esterna. Erano comprensibilmente nervosi. Entrambi non sapevano come la notizia del loro incontro sarebbe stata accolta in patria. Quando il nostro fotografo ha scattato una foto dei due uomini insieme, ho voluto bloccarla finché non sono stata certa che i due primi ministri fossero disposti ad accettarne serenamente la diffusione. Il loro compito era trovare un modo per aiutare lo stesso gruppo di persone: decine di migliaia di serbi del Kosovo che vivono nel nord del Kosovo. È stato scritto molto sulla storia della controversia, la questione era come porvi termine. Quella prima riunione nel mio ufficio è durata soltanto un’ora. Il suo scopo era semplice: non risolvere le divergenze, ma capire se era giunto il momento per un dialogo sostenuto. Ho ritenuto che lo fosse e, cosa più importante, anche loro. Sono seguiti altri nove incontri. A volte erano lunghi – fino a 14 ore – spesso dettagliati e a volte tesi. A varie riprese ho invitato i vice primi ministri e altri soggetti di entrambe le parti a partecipare ai colloqui. Sapevo che portare i due primi ministri a firmare un pezzo di carta non sarebbe stato sufficiente. Un accordo avrebbe retto soltanto se approvato da ampie coalizioni sia in Serbia sia in Kosovo. Alla fine entrambe le parti hanno trovato un terreno d’intesa sul livello di autonomia di cui i serbi del Kosovo dovrebbero usufruire. In patria, a Belgrado e a Pristina, il loro accordo è stato accolto con favore da tutte le forze politiche. Molto resta da fare per attuare l’accordo sul campo. La strada che resta da fare non sarà probabilmente tutta agevole. Nondimeno ritengo che sia possibile riflettere sulle quattro grandi lezioni apprese negli ultimi sei mesi.1. Una leadership coraggiosa è vitale nel conseguimento di un cambiamento duraturo. In tutto il mondo il corso normale della politica è sfruttare le divisioni e fomentare le differenze. La pace vuole un terreno d’intesa e un progetto di futuro condiviso. Nei sei ultimi mesi ho visto uomini di Belgrado e di Pristina evolvere da politici a costruttori di pace. Sapevano di assumersi dei rischi ma, a loro grande merito, senza lasciarsi scoraggiare.2. L’Europa di oggi – in realtà larga parte del mondo di oggi – vive situazioni di disordine. Abbiamo identità molteplici che rifuggono dal semplice concetto di Stato-Nazione del XIX secolo. Una delle grandi sfide, in tante delle controversie odierne, è riconoscere lo stato di disordine e aiutare i popoli con identità diverse a trovare modi di condividere lo stesso spazio in uno spirito di rispetto reciproco. Avremo allora la possibilità di conquistare il vero premio: la celebrazione della nostra magnifica diversità.3. L’Unione Europea può svolgere un ruolo determinante. Rappresenta un grande esperimento nel far sì che la diversità vada a vantaggio di noi tutti. Sì, ha i suoi difetti. Sta attualmente affrontando dure sfide economiche. Ma in generale funziona. Questo spiega perché i popoli dell’Europa orientale hanno voluto l’adesione non appena si sono liberati dalla dominazione sovietica. Ora sono la Serbia e il Kosovo a voler aderire. Spero che l’accordo della settimana scorsa abbia avviato un processo che li metterà in grado di farlo.4. Il potere di coercizione – la forza economica e a volte quella militare – ha il suo peso; ma il potere di persuasione ha un grande ruolo da svolgere. La Ue continua ad attrarre nuovi membri non solo perché sostiene gli scambi, l’occupazione e gli investimenti, ma perché rappresenta valori, come la libertà e la democrazia, che sono fonte di ispirazione per i popoli di tutto il mondo. Il potere di coercizione invita al calcolo; il potere di persuasione premia l’immaginazione. Quello che Ivica Dacic e Hashim Thaci hanno mostrato quando sono venuti nel mio ufficio è stato il coraggio di immaginare un futuro migliore per i loro popoli. Ecco, allora, la mia speranza (sottolineo "speranza", non ancora certezza). Nel secolo scorso i Balcani occidentali erano conosciuti come un luogo di guerra. D’ora in avanti possano essere conosciuti come un luogo di pace.* Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza e vicepresidente della Commissione europea
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