martedì 14 aprile 2009
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Recandosi a Haiti è facile incontrare esclusivamente povertà. Ma visitando di recente il Paese con l’ex presidente americano Bill Clinton, abbiamo scorto opportunità di cambiamento. Certo, Haiti resta una nazione estremamente sofferente. Non si è ancora del tutto ripresa dai devastanti uragani dell’anno scorso, per non parlare dei decenni passati di dittatura. Eppure, questo è ciò che ci ha detto il presidente René Préval: «Haiti si trova a un bivio». Rischia, cioè, di regredire verso il baratro e la miseria più profonda, vanificando i progressi compiuti e il lavoro svolto delle Nazioni Unite. Tuttavia, ha anche la possibilità concreta di cambiare lo stato delle cose, verso un futuro di speranza. Ieri e oggi i maggiori donatori internazionali si sono incontrati a Washington per valutare la possibilità di ulteriori aiuti a favore di questa terra sfortunata, dilaniata da forze incontrollabili. Apparentemente il Paese non ha grandi ragioni di ottimismo. La crisi finanziaria ha ridotto gli aiuti finanziari. I problemi cronici – popolazione in fuga, carenza di cibo e risorse primarie, degrado ambientale – spesso sembrano insuperabili. Eppure, Haiti ha una possibilità superiore a quella delle altre economie emergenti, non soltanto di contenere l’impatto dell’attuale recessione, ma addirittura di prosperare. Il motivo è la nuova legislazione americana in materia di commercio, che spalanca al Paese un’enorme occasione. Hope II, come si chiama la nuova legge, offre infatti ad Haiti un accesso ai mercati statunitensi per i prossimi nove anni senza limiti doganali né quote. Nessun altro Stato gode di tale prerogativa. Si tratta dunque dell’opportunità di consolidare il progresso compiuto (in particolare, un livello soddisfacente di stabilità politica) grazie all’aiuto della missione di pace Onu, e di passare dunque dallo stadio degli aiuti a quello dello sviluppo economico. Visto il massiccio livello di disoccupazione, particolarmente tra i giovani, tutto ciò si traduce soprattutto in posti di lavoro. Il mio consigliere speciale per Haiti, Paul Collier, docente di Economia dello sviluppo all’Università di Oxford, ha delineato, d’intesa con il governo, una strategia che individua passi e politiche specifici per creare occupazione, con un’enfasi sui tradizionali punti di forza del Paese, quali abbigliamento e agricoltura. Un paio di esempi di tali misure: dare attuazione a nuovi regolamenti che diminuiscano il livello dei dazi portuali (attualmente tra i più alti dei Caraibi) e creare distretti industriali specializzati capaci di investimenti e di economie di scala, in vista dell’esportazione. Tutto questo può forse apparire ambizioso in una nazione di nove milioni di abitanti, l’80% dei quali vive con meno di due dollari al giorno, e che dipende per la metà del cibo consumato dalle importazioni. Sappiamo però che può funzionare. Lo abbiamo visto accadere in Bangladesh, Paese che vanta un settore dell’abbigliamento che dà lavoro a 2,5 milioni di persone. Lo stesso è avvenuto in Uganda e Ruanda. Abbiamo visto molti segnali positivi, grandi e piccoli, nel corso del nostro viaggio. Un giorno abbiamo visitato una scuola elementare nella Cité Soleil, un sobborgo di Port au Prince a lungo vittima di bande criminali prima che le forze Onu ne riprendessero il controllo. Quei bambini sono ora ben nutriti, grazie al Programma alimentare mondiale, e stanno studiando. In un’altra scuola, per studenti meritevoli, denaro raccolto attraverso sottoscrizioni private negli Usa finanzia borse di studio ai ragazzi haitiani più poveri, che non potrebbero altrimenti nemmeno sognare di andare all’università. Tutti questi giovani vengono avviati verso carriere nell’impresa, con un buon livello di stipendio, in modo che non lascino l’isola Colpisce chiunque venga da fuori quanto siano bassi in realtà gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione del pieno potenziale di Haiti. Visitando una fabbrica pulita ed efficiente nella capitale, abbiamo incontrato lavoratori che guadagnano sette dollari al giorno per produrre magliette destinate all’esportazione, un salario che consente loro di essere collocati nella classe media haitiana. In base a Hope II, il proprietario ritiene che sarà in grado di raddoppiare o addirittura triplicare la produzione entro un anno. Ecco perché a Washington chiediamo ai donatori di investire ad Haiti e su Haiti, andando oltre il puro aiuto umanitario. È il momento di Haiti, c’è un’opportunità unica per uno dei Paesi più poveri al mondo di sollevarsi verso un futuro di genuina speranza.
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