Guai a darsi al gran scialo
giovedì 28 maggio 2020

Adesso è davvero una questione di qualità, per cantarla un po’ punk come faceva Giovanni Lindo Ferretti ai tempi dei CCCP: dobbiamo imparare a spendere bene i nostri soldi. Quelli che raccogliamo con le tasse (a versarli siamo noi, i contribuenti) e quelli che chiediamo in prestito ai mercati (sempre a noi stessi, con la casacca del risparmiatore) o all’Europa (ancora noi, Paese fondatore e a tutt’oggi contribuente netto dell’Unione). Il governo ha già messo mano al portafoglio pubblico – il nostro – come mai aveva fatto prima, almeno da quando condividiamo la moneta. Le risorse comunitarie arriveranno questa volta copiose: 90 miliardi di euro nella forma di prestiti ben più vantaggiosi di un Buono italiano del Tesoro, e una bella porzione, 80 miliardi, addirittura come trasferimenti. L’Italia risulterà il maggior beneficiario del pacchetto europeo per la ripresa. Ma se non saremo in grado di gestirla con lungimiranza, questa valanga di miliardi potrebbe fra non molto travolgerci come debito collettivo diventato troppo grande per la nostra capacità di sostenerlo: lo chiamano "effetto snowball" e indica la differenza tra costo medio dei titoli pubblici e crescita nominale del Pil. Nel garantire rendimenti profumati siamo oggi i campioni dell’Eurozona insieme alla Grecia; quanto a crescita, arranchiamo da vent’anni nel gruppo di coda. Il "Next Generation EU" ci spalanca dunque una finestra di opportunità inimmaginabili solo tre mesi fa. Una finestra temporanea che affaccia però sul cortile permanente della responsabilità.

A differenza di quanto accaduto nella precedente crisi in cui si scelse – sbagliando – la linea dell’austerità, l’Unione Europea ha deciso in pratica di affrontare l’emergenza Covid eliminando il cosiddetto 'vincolo esterno' e abbozzando una sorta di stabilizzazione fiscale quasi da Stati Uniti d’Europa. Se ieri si dovevano cioè rispettare degli argini quantitativi per tenere i conti in ordine e non spendere più di quanto ci potessimo permettere – scaricando i costi sulle generazioni future con il deficit che diventa debito –, domani saremo in teoria nelle condizioni di scialare. Attenzione, però: d’ora in avanti ci mancherà il classico capro espiatorio sul quale scaricare le colpa di non poter destinare risorse agli investimenti perché il limite troppo rigido al disavanzo lo si raggiungeva con la sola spesa corrente. E quella primaria di spesa, si badi, gonfiata dalle sacrosante misure per fronteggiare la grave emergenza sociale che ci aspetta, è destinata a sfiorare entro l’anno addirittura mezzo Pil (47%).

La domanda che ora s’impone è la seguente: saremo capaci di interventi qualitativi che traghettino risorse, anche in deficit, verso quello che ci fa crescere e non rimanere più impantanati in una stagnazione ultradecennale? È la ricerca della qualità nel cosiddetto policy mix. E passerà da scelte concrete. Politicamente assai dolorose, in termini di consenso, quanto virtuose per la nostra economia. Da una parte del ventaglio, per intendersi, c’è la facoltà di spendere tre miliardi per Alitalia, dieci per Quota 100, venti per sussidi ambientalmente dannosi e ancora di più in quelli a pioggia che servono alla classe politica per tenersi buone quante più constituency possibili quali serbatoio di futuri voti nelle urne. Dall’altra ci stanno le risorse per l’istruzione, sul lungo periodo il più efficace propellente per produttività e crescita, quelle del Mes per riorganizzare la sanità territoriale, i capitali indispensabili a infrastrutture digitali e formazione dei lavoratori. Considerato inoltre che la spesa per i trasferimenti sociali toccherà nel 2020 il 25% del reddito nazionale comprimendo tutte le altre voci di bilancio, risulterebbe strategico saper coinvolgere le realtà del Terzo settore, amplificandone la capacità di intervento sul territorio in chiave di welfare sussidiario, e applicare così una vera economia (pubblica) di scala. La prossima Legge di bilancio disporrà insomma di una grande capacità di spesa, non solo in deficit. E dovrà essere in grado di immaginare un percorso per assolvere al duro compito – è già nero su bianco – dall’ultimo Def: ridurre entro il 2030 del 60% il rapporto debito-Pil. Impresa vana se non si riuscirà a sfrondare la mole di misure emergenziali ed elettorali accumulate nei decenni per convogliare almeno un terzo dei quattrini a ciò che ci può fare davvero bene, di modo che la 'palla di neve' si riduca grazie al fatto che a crescere non è solo il debito ma anche la nostra economia. Non è certo poco. Ed è proprio quello che non è quasi mai riuscito ad alcun governo negli ultimi venticinque anni: spending reviewe politiche pubbliche virtuose di lungo periodo che utilizzano le risorse fiscali per uno sviluppo sostenibile. Nella ricerca di questo salto qualitativo povero di vincoli esterni e ricco di denari a fondo perduto, a chi ci governa converrebbe forse tenere a mente il monito di un uomo che di qualità ne aveva fin troppe. A mancargli era però un progetto per il quale impiegarle, una visione sul destino comune degli uomini e in fin dei conti sul futuro: «Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente che gli stipiti sono duri», notava l’Ulrich di Robert Musil.

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