sabato 27 aprile 2013
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Si sente dire in queste ore, dai diversi partiti sfidati a saper convergere nella formazione del governo, che «la riforma della giustizia è una delle priorità del programma». La domanda spontanea è: quali riforme? È possibile che su questo tema – su cui per anni due delle forze che dovrebbero sostenere l’esecutivo, Pd e Pdl, hanno avuto contrapposizioni laceranti e che hanno fortemente mobilitato i loro elettorati – si possa oggi trovare un accordo? O non è piuttosto proprio la giustizia uno degli scogli, presenti e futuri, sulla via del governo possibile e necessario in questa fase straordinaria? Eppure, tentare si deve. C’è, innanzitutto, una questione di metodo. Questo giornale ha più volte denunciato il fatto che, negli ultimi vent’anni, molti problemi reali del funzionamento della giustizia sono stati agitati come un vessillo di fronte all’opinione pubblica, senza però proporre soluzioni effettive a quei problemi ma palesando spesso un intento solo punitivo contro i magistrati. D’altro canto, la reazione difensiva di chi vedeva questi temi roteati come clave sulla propria testa è stata sovente quella di negare l’esistenza dei problemi. E così: abbiamo avuto questioni reali strumentalizzate da una parte e, dall’altra, ed eluse in quanto strumentalizzate. Esemplare, in questo senso, è la questione intercettazioni: si denunciava (giustamente) la vergognosa pubblicazione sui giornali di conversazioni che riguardavano esclusivamente la vita privata delle persone e si indicava, come unica ricetta possibile, un minore ricorso all’uso delle intercettazioni. Mentre è evidente che la soluzione non è la rinuncia dei giudici a utilizzare questo strumento investigativo bensì contrastare, non solo a parole ma con regole stringenti, chi fa uscire e pubblicare queste conversazioni. Simile considerazione vale per il problema dei problemi: l’eccessiva lentezza dei processi. Il ministro Paola Severino ha già avviato alcuni passi importanti, che vanno portati a termine: la diminuzione delle circoscrizioni dei tribunali e il più razionale utilizzo dei magistrati sul territorio; e il processo telematico. Ma tutti gli operatori della giustizia, dagli avvocati ai magistrati, sanno bene che la durata dei processi potrà essere seriamente affrontata e portata a livelli europei soltanto con uno snellimento delle procedure simile a quello degli altri Paesi del continente. Partendo da un’organica rivisitazione delle garanzie, che lasci intatte e magari renda più salde le norme che realmente tutelano il diritto del cittadino-imputato di rivendicare la propria innocenza; ma, allo stesso tempo, elimini le norme che semplicemente rallentano il corso della giustizia. Ad esempio, prevedendo maggiori filtri per le impugnazioni ed abolendo la prescrizione del reato dopo la condanna di primo grado. E ancora – come Avvenire ha più volte auspicato e come previsto da una proposta di legge presentata alla Camera nella corsa legislatura – estendendo al procedimento ordinario la possibilità (già sperimentata con successo nel processo minorile e in quello del giudice di pace) di archiviare la notizia di reato nei casi di «particolare tenuità del fatto».Sarebbe, questa, una riforma 'a costo zero' che comporterebbe grandi risparmi delle risorse che lo Stato deve impiegare per celebrare un processo per cui sono previsti tre gradi di giudizio. Questa soluzione avrebbe anche il pregio di formalizzare la discrezionalità di fatto che già oggi il pubblico ministero è costretto a esercitare con alcune inevitabili scelte di priorità. Una discrezionalità che in passato spesso i magistrati hanno voluto negare e che va invece riconosciuta, rivendicata come indispensabile, legittimata, resa trasparente e dunque 'leggibile' e criticabile dall’esterno: così svelenendo la discussione su uno dei punti che, in questi anni, più si è prestato ad essere terreno di polemiche.
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