martedì 11 settembre 2012
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​Oggi entra in funzione il "filtro" per l’appello nei processi civili: il provvedimento, contenuto nel decreto per lo sviluppo varato in giugno dal Governo e convertito in legge in agosto dal Parlamento, consente ai giudici delle Corti d’Appello di dichiarare inammissibili i ricorsi che appaiono «ragionevolmente» infondati. Insieme con lo snellimento della procedura per ottenere i risarcimenti in base alla legge Pinto (eccessiva durata del processo), alla stretta sull’ammissione di nuove prove in secondo grado e alla revisione dei motivi per adire la Cassazione, questa misura dovrebbe alleggerire i carichi eccessivi che da anni provocano l’ingolfamento dell’amministrazione della giustizia civile. Almeno sulla carta, si tratta di una piccola grande svolta per l’Italia dei tribunali, da anni saldamente ai primi posti nel mondo per lunghezza delle cause e tasso di litigiosità. La speranza è che, essendo le ordinanze sull’inammissibilità in appello impugnabili in Cassazione, il flusso dei ricorsi non venga semplicemente dirottato su quest’ultima. Si vedrà.

Intanto è dimostrato che qualcosa di concreto si può fare. E se si può per il civile, si può (anzi, si deve) anche per il penale. Su questo versante figurano nell’agenda del governo e delle Camere tre testi di legge: il ddl anti-corruzione, la riforma delle intercettazioni telefoniche e ambientali, la disciplina della responsabilità civile dei magistrati. Ma tutto è bloccato da veti contrapposti dei due maggiori partiti. In estrema sintesi, il Pd vorrebbe dare la precedenza al ddl anti-corruzione; il Pdl ribatte che sarebbe ingiusto non procedere contestualmente anche su intercettazioni e responsabilità civile, ma per quanto riguarda l’anti-corruzione chiede modifiche sostanziali alle nuove fattispecie di reato («traffico d’influenze» e «corruzione tra privati»). Ancora una volta, agli occhi del cittadino comune che è riuscito a non farsi contaminare dalle tossine di un ventennio di bipolarismo furioso, le principali forze politiche rischiano di dare l’impressione di lavorare non per il bene comune, ma per interessi di parte (personali o di categoria, di Berlusconi o di qualche pm) oppure con intenti in qualche modo "punitivi" (nei confronti degli stessi soggetti).Bene fa, perciò, il ministro della Giustizia a precisare che non accetterà «scambi» in materia di giustizia, né permetterà che vengano tolte le basi alla «piramide» del testo contro la corruzione. E altrettanto bene fa a osservare che «è possibile realizzare due o più obiettivi contemporaneamente». Sarebbe questa la soluzione migliore, perché la giustizia penale è come una macchina che non va: non si può aggiustare il motore e poi andarsene in giro senza freni e senza luci. Per restare nella metafora automobilistica, servirebbe un’accorta operazione di equilibratura. Occorre contemperare l’esigenza d’inflessibilità verso i politici e i funzionari corrotti con quella di sanzionare davvero il magistrato che sbaglia per dolo o colpa grave (non virtualmente come avviene adesso, ma senza clausole vessatorie e nel pieno rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario) e con il fondamentale diritto di ogni cittadino (il signor Rossi come il presidente Napolitano) di non vedere violata la riservatezza delle proprie comunicazioni.A queste tre urgenze, poi, ne va affiancata una quarta, che riguarda la situazione nelle carceri e investe direttamente la dignità umana e, ancora una volta, l’osservanza della Costituzione. Alla fine di settembre il Parlamento dovrebbe cominciare a discutere il disegno di legge governativo sulle misure alternative alla reclusione, come la messa alla prova e la detenzione domiciliare. Un diritto giusto ed efficiente può senz’altro favorire la crescita economica di un Paese, ma è innanzi tutto la misura della civiltà di un popolo. Sciupare i mesi che ancora mancano alla fine della legislatura sarebbe un errore imperdonabile

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