martedì 6 ottobre 2009
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Sarà inevitabile, naturale e in fondo anche giusto. Ma ricordare Gino Giugni, nel giorno della sua scomparsa, solo come il « padre dello Statuto dei lavoratori » pensia­mo sia riduttivo. Soprattutto, temiamo pos­sa finire per consegnare ' ai posteri' un’im­magine falsata del giuslavorista genovese, cristallizzata a un’opera – lo Statuto, ap­punto – che non esaurisce il suo impegno tecnico-politico. Col rischio di perdersi nel­la retorica della « stagione dei diritti » , della « svolta storica » , senza cogliere la vera ere­dità di Giugni: l’esercizio di uno spirito cri­tico, la capacità di guardare oltre, di cerca­re soluzioni al di là di schemi ideologici. Ri­mettendo in discussione, in qualche modo, anche se stessi e il proprio lavoro, senza pre­tendere di ' imbalsamarlo'. Come nel caso dello Statuto dei lavoratori, che oggi neces­sita di un profondo ripensamento. Quella che in realtà dovremmo tenere a mente pensando a Giugni è infatti la figura di un riformista a tutto tondo, capace di in­dividuare soluzioni pragmatiche aderenti ai valori di fondo scritti nella Costituzione, senza però divenirne una vestale acritica. Dello Statuto, che elaborò per incarico del­l’allora ministro del Lavoro Giacomo Bro­dolini, cercò subito di evitare che diventas­se, sulla spinta del cli­ma fortemente riven­dicativo di quegli an­ni, lo « statuto dei la­vativi » . E successiva­mente non ebbe diffi­coltà a evidenziarne i limiti, le letture di­storte che ne dava in particolare la giuri­sprudenza, a metter­ne in luce gli aggiusta­menti necessari. Così pure, Giugni andrebbe ricordato come uno dei principali tessitori – quale ministro del Lavoro nel governo di Carlo Azeglio Ciam­pi – dell’accordo del luglio 1993 sul sistema contrattuale. Senza che ciò gli impedisse, appena 5 anni dopo, di evidenziare i punti di logoramento di quello stesso modello e di indicarne una serie di correttivi. Sono oc­corsi altri 10 anni, però, prima che buona parte di quei suggerimenti fossero inseriti nell’intesa sui nuovi contratti, firmata a gen­naio da tutte le parti sociali ad esclusione della Cgil. E ancora, Giugni fu il primo a cer­care di introdurre già nei primi anni 90 il la­voro in affitto e aprire l’intermediazione del­la manodopera ai privati. Riforme che riu­scirà a condurre in porto Tiziano Treu, ma nel ’ 97 e solo grazie alla ' costrizione' di u­na sentenza della Corte di giustizia euro­pea. Bastano questi pochi dati, dunque, per trat­teggiare il profilo di un riformatore dallo sguardo ' lungo', che non a caso venne in­dividuato come bersaglio dalle Brigate ros­se nel 1983, preludio di un filone di atten­tati che porterà poi all’uccisione di Massi­mo D’Antona, di Marco Biagi e, più di re­cente, alle minacce nei confronti di Pietro Ichino. Nomi che – assieme a quelli di altri protagonisti del dibattito in materia – in co­mune portano la tensione al cambiamento, all’evoluzione del diritto del lavoro, non so­lo per adattarlo alle mutate condizioni del­l’economia e della moderna produzione, ma perché sempre più effettiva divenga la tutela e la valorizzazione della persona nel­l’ambito del lavoro. Motivo per il quale og­gi è necessario riformare lo Statuto di Giu­gni e arrivare a uno « Statuto dei lavori » che assicuri a tutti, davvero tutti i lavoratori, al­cuni diritti fondamentali, prevedendo poi tutele e provvidenze modulabili e integra­bili a seconda delle specifiche attività, del-­l’età, del concorso solidale di lavoratori e imprese. Uno Statuto con nuovi ammortiz­zatori generalizzati, potenziati, orientati al­la ricerca di nuove opportunità di impiego, e che però permettano di superare il tabù della flessibilità in uscita ( la licenziabilità), senza ' scaricare' solo sui giovani, sui pre­cari e sui dipendenti delle piccole imprese il peso delle crisi. Uno Statuto dei lavori, che aiuti a cambiare il paradigma dei rapporti tra capitale e lavoro in chiave collaborativa, anziché conflittuale. Quarant’anni dopo, con lo stesso spirito riformista.
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