giovedì 12 febbraio 2009
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Scrivo queste righe per raccogliere un’in­credibile sfida, e per rilanciarla a mia vol­ta con stupefatta ma serena coscienza. È sta­to, infatti, scritto che Avvenire avrebbe defini­to «un boia» Beppino Englaro. I nostri lettori sobbalzeranno, e a ragione. E io, a nome mio e loro, sfido chiunque a dimostrare che Avve­nire, in un proprio articolo, abbia mai abbi­nato al nome del signor Englaro quella quali­fica. Quando si arriva a contrarre e manipola­re un ragionamento articolato lungo alcuni paragrafi in un paio di parole icastiche in realtà mai accostate né intenzionalmente né ca­sualmente sul nostro giornale, e quando un giornalista come Giuseppe D’Avanzo – al pari del più inesperto Giacomo Galeazzi (La Stam­pa di Torino) – arriva ad assumere come fon­te autorevole un ideologico spiffero di agenzia, senza lo scrupolo di una qualche verifica, al­lora – diciamolo – il processo di dequalifica­zione del nostro mestiere è ben più avanzato di quanto si pensi. Perché Repubblica, che è un giornale di qual­che ambizione culturale, si lasci cadere in un simile infortunio lo ignoro. O meglio, credo di immaginarlo: da qualche settimana nelle re­dazioni dei giornaloni laici soffia insistente un venticello di anticlericalismo, tanto stupito quanto superficiale. E più il giornale cattolico teneva il punto, più questi si accanivano a suon di battute beffarde e assurde. Per loro infatti non c’è il giornalismo ben fatto o mal fatto, c’è il giornalismo amico o nemico. Dunque, ad­ditare e far sentire isolato Avvenire, è un o­biettivo in sé bastevole. Naturalmente a costoro non importa che noi non ci sentiamo affatto isolati e mai come in questa occasione rigenerati invece dentro il popolo della vita, e fieri portavoce di questo. Aggiungo che se si è al punto che già non ba­sta più certo giornalismo creativo, da sfonda­re nell’invenzione e nella calunnia verso un’in­tera redazione, mi spiace tanto collega Ezio Mauro, ma temo siate più fragili di quel che immaginate. Che poi, per ben servirvi, il Gran­de Valdese sia subito pronto a impartirci – ad onta di ogni bon ton e garbo interconfessionale – l’ennesima lezioncina sul Concilio Vatica­no II, è solo il mesto coronamento di un’aci­da torta. Attenti però, che cominciamo a stancarci. Che se la nausea raggiunge la soglia critica e i cat­tolici anche solo per un giorno o una settima­na rinunciano ad acquistarvi in edicola, allo­ra son dolori. Una parola vorrei dire sugli inviti al silenzio che come funghi sono spuntati nelle ultime settimane di vita di Eluana. Conosco il gene­re, e conosco bene alcune delle personalità che li hanno rivolti e so che il loro era un saggio ap­pello alla misura e riflessione. E infatti ci sia­mo sentiti confortati e non poco aiutati. Altre volte questo invito era un tantino più peloso, quasi un incitamento alla diserzione civile. A guardare altrove, lasciando che le grandi ma­novre attorno alla morte si compissero indi­sturbate, tra bugie talora clamorose e una fret­tolosità alquanto sospetta. Naturalmente non potevamo accontentarli. Sarebbe stato un tra­dimento. Soprattutto nei riguardi di quei tan­ti tra il popolo che non possono permettersi av­vocati e primari, guardie del corpo e strutture ad hoc dedicate, eppure con dignità portano avanti la croce loro riservata, che ad un tem­po è la loro gloria. Potevamo forse lasciar cre­dere che la Chiesa e il suo lessico integro, e mai ipocrita, avrebbero smesso di custodirli? Sembrerà strano ai nostri amati (lo sono, no­nostante tutto) colleghi laici, ma sanno costo­ro chi o che cosa ci ha dato coraggio proprio nelle ultime settimane, oltre alla nostra buo­na coscienza? La parola sempre puntuale del Papa, che anche in un momento di tensioni va­rie, e potenzialmente delicato quanto ai rap­porti tra lo Stato e la comunità credente, ha trovato ogni volta la sapienza e la delicatezza per stemperare qualunque pretesto di pole­mica ma anche per confortare e sostenere il po­polo della vita. Bussola chiara e indubitabile, egli è stato anche in questi giorni. Il che, in­sieme alla testimonianza delle Misericordine (che nome splendido) di Lecco, è ciò che più conta. Quanto al resto, lasciamo – come dice­va don Bosco – cinguettare i passeri. (db)
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