sabato 18 febbraio 2012
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Prima ancora che venissero annunciate, a metà giornata di un venerdì 17 indimenticabile per la Germania, le dimissioni del presidente Wulff stavano già scritte sui giornali tedeschi di ieri mattina. «Unvermeidlich», inevitabile il passo indietro del capo dello Stato dopo la richiesta della magistratura di revocare la sua immunità. Una richiesta indirizzata al Parlamento che avrebbe dovuto esaminarla in una seduta potenzialmente esplosiva. Con un gesto di grande responsabilità Christian Wulff, il più giovane presidente nella storia della Bundesrepublik, ha rinunciato all’incarico evitando un penoso iter politico-istituzionale che avrebbe costituito un trauma insopportabile per la nazione. La vicenda si stava trascinando da due mesi, da quando una vecchia storia di favori goduti da Wulff negli anni in cui era governatore della Bassa Sassonia, legato da rapporti poco chiari a un imprenditore, era tornata alla ribalta con nuovi dettagli. Tra gaffe, bugie e mezze ammissioni la sua posizione si era fatta sempre più difficile. I suoi guai avevano messo in crescente imbarazzo anche Angela Merkel, la cancelliera che l’aveva fortemente voluto alla presidenza della Repubblica, mentre si acuivano le tensioni all’interno della Cdu, il partito democristiano di cui Wulff incarnava il volto giovane e pulito. Non c’era più tempo da perdere, la questione andava chiusa. Troppo grande il rischio di pagare le conseguenze dello scandalo nelle prossime elezioni, quelle che si terranno in primavera in vari Länder. Ma c’è qualcosa che va al di là delle ovvie considerazioni di politica interna. La Germania, che ha ormai assunto la leadership dell’Europa, non si può permettere una crisi lacerante ai vertici dello Stato. Merkel, che ogni giorno sale in cattedra per invitare gli altri Paesi della Ue a «fare bene i compiti a casa», è obbligata a tenere in ordine la propria: e questo riguarda certamente i conti dell’economia, ma ancor più la credibilità della politica e il prestigio delle istituzioni. Non va dimenticato che anche il predecessore di Wulff, Horst Köhler, si era dimesso improvvisamente nel maggio del 2010, a seguito di un’incauta dichiarazione sulla missione militare tedesca in Afghanistan (dovuta, a suo dire, alla necessità di proteggere gli interessi commerciali della Germania). Due ritiri anticipati dalla più alta carica dello Stato nel giro di due anni metterebbero a dura prova l’immagine di qualsiasi Paese. Ma i tedeschi, a quanto pare, sanno trarre motivo di forza dalle loro debolezze. Diciamo la verità: agli occhi di noi italiani, a lungo impotenti spettatori di un estenuante e confuso rimpallo tra magistratura e politica, la vicenda Wulff appare lunare. Le sue, più che colpe, sembrano leggerezze: non ha rubato, non ha intascato mazzette, ha solo goduto di prestiti a un tasso agevolato e di qualche vacanza pagata. Inezie per certi potenti (politici e no) di casa nostra. Ma in Germania anche il più piccolo sospetto sull’integrità morale del più alto rappresentante della nazione giustifica e impone la sua uscita di scena. Wulff, beninteso, non è da ritenersi colpevole fino a quando un tribunale emetterà una sentenza in tal senso. Ma come il famoso contadino della Prussia i tedeschi sono convinti che “c’è un giudice a Berlino”. E, soprattutto, sanno che questo giudice non ci metterà decenni per emettere il verdetto. Anche in Italia abbiamo avuto un presidente (della Repubblica) costretto a dare le dimissioni. E fu un’ingiustizia. Ci vollero più di vent’anni prima che a Giovanni Leone, anche lui un democristiano, fosse reso l’omaggio che la sua persona e il suo spirito di servizio meritavano.
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