sabato 20 luglio 2013
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Gli eventi di cronaca di questi giorni riguardanti la famiglia Ligresti ripropongono patologie di comportamenti che, da molto tempo a questa parte, sono stancamente uguali a se stesse. Che i fatti raccontati siano o no riconosciuti passibili di condanne penali non è il punto decisivo. Il problema, nella sua dimensione più profonda, è che la finanza resta materia complessa e per questo scarsamente compresa e presidiata dall’opinione pubblica. Che abbandona i regolatori con le loro debolezze alla 'cattura' da parte di regolati che guidano il vapore come vogliono, drenando ricchezza a spese dei contribuenti.
Al di là dei dettagli tecnici, quello che accade è che gli addetti ai lavori sfruttano il loro enorme vantaggio informativo e di competenze non per creare valore a vantaggio della collettività, ma per sottrarre alla collettività valore che non sono loro a creare. Il ventaglio delle operazioni possibili è enorme e va dalle manipolazioni di bilancio, alle operazioni con parti correlate, agli acquisti di grandi società a debito che caricano sulle stesse fardelli impossibili che ne condizioneranno la vita futura. È in questo modo che buona parte delle nostre grandi aziende sono state progressivamente distrutte. Non c’è che una strada possibile, se vogliamo cambiare. Non abbandonare più i regolatori al loro destino ma presidiare il luogo dove si giocano gran parte dei destini del nostro benessere socio­economico che è, oggi, quello dei mercati finanziari. Come? 'Popolarizzando' sempre di più i temi della finanza, come si propongono di fare campagne come la ZeroZeroCinque​, attraverso la quale una rete rappresentativa di organizzazioni della società civile entra nel merito delle riforme più urgenti: da quelle della regolamentazione dei derivati e della separazione tra banca commerciale e banca d’affari sino al contrasto alla finanza speculativa e all’elusione/evasione fiscale. I primi commenti a caldo al 'caso Ligresti' sono quasi tutti condivisibili e identificano con precisione i vizi del sistema.
Su un punto però è necessario andare più in profondità e dire qualcosa di più e di diverso. Per volgere il sistema in direzione del bene comune e sfruttare le incredibili potenzialità della finanza per fare del bene, non basta sgombrare il campo da tutti i conflitti d’interesse con regole ottimali per consentire alle imprese di condurre in fondo il proprio gioco di massimizzazione del profitto. Bisogna avere invece il coraggio di dire – e di questo ci hanno recentemente avvertito alcuni documenti ispirati alla Dottrina sociale della Chiesa – che la massimizzazione del profitto è il nuovo vitello d’oro a cui ci siamo fatti schiavi. Perché quella logica che si fa regola (in assenza di contrappesi forti in materia di concorrenza, di istituzioni benevolenti e perfettamente informate e non 'catturate' e di meccanismi di reputazione perfettamente funzionanti) crea la dittatura di un portatore d’interesse (l’azionista appunto) ai danni di tutti gli altri (lavoratore, consumatore, fornitori, comunità locali). 'Altri' le cui sorti sono molto più importanti per la nostra felicità e per la fioritura della vita di persone e comunità. E questo slittamento produce, oggi, aberrazioni. Come quelle di grandi aziende; schiave della massimizzazione del valore dell’azionista, che chiudono impianti in utile, ma non abbastanza in utile, licenziando centinaia di lavoratori solo per aumentare i rendimenti del loro capitale.
Come è noto, i rapporti di forza tra le diverse parti in causa al momento della creazione di un’azienda sono decisivi per determinarne la governance. Lo squilibrio in direzione del potere degli azionisti degli ultimi tempi (e la progressiva riduzione della capacità dei lavoratori di appropriarsi di fette importanti della torta di valore creato dalle imprese) nasce con la globalizzazione che rende 'fruibile' per i proprietari dei beni capitali l’opzione di delocalizzare e di accedere all’esercito di riserva dei milioni di diseredati disposti a lavorare a un dollaro al giorno. Questo aumenta enormemente il potere contrattuale dei finanzieri nei confronti degli altri attori portandoci alla situazione in cui siamo. Una società dove la persona e la sua vita di relazioni sono strumentali alla produzione di beni e servizi e non il contrario.
Mai come in questo momento difficile abbiamo il dovere di indicare l’orizzonte, di battere nuovi sentieri e di indicare circoli virtuosi che già esistono e devono soltanto crescere. Solo il salto in avanti di responsabilità di aziende multistakeholder (cioè orientate al profitto ma socialmente responsabili, cooperative, etiche, solidali...) in grado di ripartire in modo più equilibrato la creazione di valore tra i diversi attori, e di cittadini consumattori (e non più solo consumatori) capaci di premiare le aziende all’avanguardia nella capacità di generare bene comune può modificare radicalmente il quadro in cui viviamo. Aiutando i regolatori – coloro che ci rappresentano e ci governano – a non combattere da soli una battaglia più grande di loro, grande come il mondo.
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