giovedì 28 novembre 2013
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Se anche non è cambiato il nome più frequente tra i bambini nati nel corso del 2012 – Francesco precede ancora Alessandro, mentre Sofia e Giulia si alternano ai primi due posti –, è invece nuovamente cambiato il loro numero complessivo: più di 12mila in meno, rispetto al 2011. Che, a sua volta, ne registrava oltre 15mila in meno. Il resoconto sulla natalità in Italia che l’Istat ha presentato con la consueta ricchezza di dettagli, racconta il déjà vu di un Paese che non riesce a invertire la tendenza al ribasso. Una dinamica che ci ha portato a registrare nel 2012 il secondo peggior risultato in 152 anni di unità nazionale: solo nel 1995, ma con tre milioni di abitanti in meno, avevamo fatto di peggio. Se qualcuno potrà trovare soddisfazione in tutto questo, magari rispolverando i vecchi temi del Paese densamente popolato o i nuovi problemi dei giovani senza lavoro, forse non ha ancora capito che proseguendo di questo passo non si aprono spazi e opportunità, bensì si mettono in discussione proprio gli equilibri sui quali il sistema socio economico si è retto finora. Proviamo a chiederci chi si prenderà cura, o meglio, chi procurerà le risorse umane e materiali per fronteggiare l’inevitabile crescita della popolazione anziana che va prospettandosi. Tra cinquant’anni ci saranno in Italia, secondo stime ufficiali e attendibili, più di 1,2 milioni di persone con "almeno 95 anni"! Se si pensa che unicamente con un assegno di accompagnamento di 500 euro mensili (se mai dovesse sopravvivere ai tagli di spesa) essi costerebbero al welfare oltre 7 miliardi ogni anno, pur senza mettere in conto i ben più impegnativi aspetti sanitari e pensionistici, si ha il quadro di una realtà nella quale, in assenza di adeguati sostegni, sarà impossibile non affondare. Ma il sostegno per la bisnonna 95enne non può che venire da Francesco, da Alesandro, da Giulia e Sofia, ossia da tutte le nuove generazioni che, da oggi ad allora, dovrebbero entrare a far parte della popolazione secondo flussi di nascite numericamente adeguati. Vale a dire, secondo numeri ben superiori a quelli cui ci stiamo abituando e che ormai sembrano non fare più notizia. Rendiamoci conto – non si deve certo essere esperti di demografia per capirlo – che se ogni coppia mette al mondo in media 1,42 figli, l’equilibrio tra le generazioni non può resistere nel tempo. Né ci si può neppure illudere, come si è fatto per anni, che l’immigrazione compensi pienamente le carenze – ad esempio nel mercato del lavoro – o che le famiglie immigrate riempiano le culle lasciate vuote dagli italiani. Le coppie straniere sono ancora relativamente più prolifiche, ma stanno imparando rapidamente a contenere la loro fecondità per difendersi dalle continue difficoltà che ogni famiglia (specie se immigrata e anche priva del supporto dei nonni) incontra nel mettere al mondo e nel "far crescere" un figlio. La leva dell’immigrazione va dunque vista come un supporto utile, ma non risolutivo. La vera risposta valida, e la conseguente azione efficace, deve maturare dalla consapevolezza che le nascite sono il mezzo con cui una popolazione costruisce e garantisce il suo futuro. La convinzione è che la scelta del figlio unico e "di qualità" – un modello rispetto al quale persino le autorità cinesi stanno lentamente cambiando rotta – sia spesso solo un ripiego dovuto allo stato di abbandono in cui vengono lasciate le famiglie sul fronte del fisco, del welfare e dello stesso clima amichevole di contorno. Se ne può uscire in un solo modo: ricordandoci che Francesco, Sofia e ogni altro bambino rappresenta, oltre che un bene da colmare di attenzione e affetto, un investimento "pubblico" che va adeguatamente promosso e tutelato.
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